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lunedì 29 ottobre 2018

1866. III Guerra di Indipendenza. Uno Studio


STORIA MILITARE NELLE MARCHE
Il Club Ufficiali Marchigiani promuove studi e ricerche, 
attraverso il suo Comitato Scientifico,
su fatti e eventi militari nelle Marche.
Qui viene in particolare studiata la Battaglia di Lissa, che vie
la piazzaforte di Ancona come base della Flotta Italiana


Capitano di Fregata Faa di Bruno 


Giancarlo Ramaccia
Presentazione al volume
1866. Quattro Battaglie per il Veneto. la III Guerra di Indipendenza ed il Valore MIlitare


Il 20 giugno 1866 fu consegnata all’arciduca Alberto d’Asburgo, comandante supremo delle forze austriache dislocate in Italia, la dichiarazione di guerra del Regno d’Italia, che fissava al giorno 23 del medesimo mese l’inizio delle ostilità. Come al solito entrammo in guerra con tre giorni di ritardo dalla dichiarazione e sei giorni dall’inizio delle ostilità rispetto a quanto precedentemente pattuito con il nostro alleato prussiano. Tale ritardo non poteva che irritare notevolmente e aumentare la diffidenza dei vertici politico-militari di Berlino, che già di loro dubitavano delle buone intenzioni dei vertici del giovane Regno d’Italia.
In ogni caso la dichiarazione di guerra, presentata all’impero austro-ungarico, fu accolta nel paese con grandi manifestazioni di consenso, accese grandi aspettative nella popolazione e produsse una straordinaria eccitazione patriottica, come ben documenta, nel suo diario, Sidney Sonnino, allora giovane ed entusiasta patriota toscano: “Gran giorno per l’Italia! Per la prima volta in tutta la sua storia essa si solleva tutta a rivendicare sola il suo diritto! Mai, mai si è visto un fatto simile. Felici noi che vi assistiamo![1].  Per il Sonnino, come per molti se non per tutti, la nuova guerra sarebbe stata breve e vittoriosa. In nessun caso si valutarono le conseguenze di una possibile sconfitta. Dopo le non brillanti vicende militari degli anni precedenti, come la guerra del 1848/49, il buon senso  avrebbe dovuto suggerire una valutazione “più cauta” da parte dei vertici politico-militari italiani. Invece, l’essere sconfitti risultava impensabile e inaccettabile da tutti gli appartenenti al nostro ceto dirigente, anche perché le conseguenze politiche erano troppo spaventose da sostenere per il giovane e debole Stato unitario. Poi gli Austriaci non combattevano su due fronti? Il nuovo esercito italiano contava ora ben venti divisioni e non più le cinque piccole divisioni del Regno di Sardegna della guerra precedente. La nostra flotta era il doppio di quella austriaca e con un numero  maggiore di corazzate, dodici contro le sette austriache, quindi sulla carta e solo sulla carta il Regno d’Italia aveva tutti i numeri e il diritto di aspettarsi una vittoria. Anche per questo motivo ciò che avvenne nelle settimane successive fu traumatico e profondamente doloroso per tutto il Paese.
Per comprendere al meglio la situazione si deve ampliare il quadro alle vicende politiche degli anni precedenti e agli enormi problemi che il giovane Stato dovette affrontare. Ben cinque furono le questioni principali e tutte intrecciate tra loro, ossia: il brigantaggio in larga parte del Paese; la crisi economica; la morte del Conte di Cavour; la questione romana e la conseguente crisi dei rapporti con la Francia, in particolar modo con l’imperatore Napoleone III; la costruzione del nuovo Esercito unitario. Tralasciamo le questioni minori ma che minori, per il giovane nascente Stato unitario, non furono.
Il 15 febbraio 1861 il Re delle Due Sicilie Francesco II di Borbone, proclama la resa della fortezza di Gaeta dove si era rifugiato dopo le sconfitte subite ad opera dell’armata garibaldina e il successivo intervento sabaudo, imbarcandosi, dopo una lunga trattativa diplomatica, su una nave francese che lo porterà a Roma dove rimarrà in esilio, ospite di Papa Pio IX. Solo dopo il gen. Cialdini potrà occupare la cittadina laziale che ha assediato e bombardato per ben 102 giorni. Successivamente anche le guarnigioni borboniche della cittadella di Messina e quella di Civitella del Tronto (Ascoli Piceno) si arrenderanno definitivamente, ma nuclei rimasti fedeli a Francesco II continueranno a combattere unendosi a bande di contadini poveri e briganti, dando vita a una lunga guerriglia a cui si darà il nome di “brigantaggio”.
Questa insorgenza sociale era frutto di povertà endemica, di patti agrari esosissimi, di nuovi inasprimenti fiscali, di una nuova ed errata leva obbligatoria che provocò una disperata guerriglia dei contadini contro i proprietari terrieri e il nuovo governo “piemontese” che fu abilmente sfruttata politicamente da chi desiderava restaurare il Regno delle Due Sicilie. La rivolta armata scoppiò nell’aprile del 1861 in Basilicata e si estese a quasi tutto il meridione continentale.
Il nascente Regno d’Italia provò inizialmente a mediare politicamente con i legittimisti borbonici, nel tentativo di contenere il fenomeno, poi diede seguito ad una feroce e indiscriminata repressione. Migliaia di insorti, alzando le bandiere bianche borboniche, occuparono province e paesi, trucidando cittadini comuni, guardie nazionali e scontrandosi con i soldati italiani. La risposta fu durissima da parte dello Stato unitario: fucilazioni indiscriminate e senza alcun processo, interi paesi bombardati e incendiati, deportazioni di massa; tutto ciò accrebbe l’ostilità della popolazione meridionale nei confronti del nuovo Regno, di “quello dei piemontesi”. Se i soldati impiegati nel meridione furono non più di 50.000 nel 1861, solo tre anni dopo se ne impiegarono 120.000, ossia circa il 50% delle forze armate dello Stato. Esse svolsero prevalentemente compiti di ordine pubblico e di polizia, tralasciando l’addestramento e la preparazione militare, per dedicarsi, a tempo pieno, a combattere e reprimere questa vera e propria guerra civile. I dati ufficiali ci dicono che tra il 1861 e il 1865 (un anno prima dell’inizio della terza guerra di indipendenza) furono uccisi in combattimento o fucilati 5.212 “cosiddetti briganti” e altri 5.000  furono arrestati e carcerati, ma i dati ufficiosi parlano e raccontano un’altra verità, ossia di ben 15.000 o 20.000 uomini eliminati. Ciò produsse una lacerazione nel tessuto politico e sociale di cui a tutt’oggi ne riscontriamo le conseguenze. A questo gravissimo problema si aggiunse, per il nuovo Stato – che si era costituito a Torino il 18 marzo 1861 con la proclamazione da parte del primo parlamento italiano del Regno d’Italia – una serie di gravissimi problemi finanziari.
Essi erano il frutto dei costi per l’unificazione nazionale che comprendevano le spese sostenute per le guerre di unificazione con l’aggiunta del consolidamento dei debiti ereditati dai periodi precedenti e dovuti ai sette Stati pre unitari e alle ben nove amministrazioni finanziarie che avevano sistemi monetari diversi, diversi modi di contabilizzare oltre a diversi criteri di imposizione fiscale e di riscossione delle imposte. Sommando tutti questi costi risultò, per il nuovo Stato, un debito pubblico esorbitante, ossia 111.500.000 lire. A questa enormità si dovette far fronte con soluzioni che risultarono non risolutive ed efficaci, anzi aggravarono ulteriormente la già difficile situazione economica.
Allo scoppio della guerra dell’ottantasei questo problema parve addirittura insormontabile, con le entrate effettive dello Stato che coprivano appena i due terzi delle uscite e con una sicura prospettiva di incremento, dovuta alle nuove spese che si dovevano sostenere per la nuova guerra. All’enorme disavanzo si provvedeva con l’emissione di nuovi titoli di debito a copertura dei prestiti esteri, proprio nel momento in cui una crisi economica gravissima si abbatteva sui mercati borsistici europei (Borsa di Londra e Parigi) dovuta in gran parte agli enormi prestiti americani per la guerra di secessione e al pagamento delle grandi quantità di cotone importate dall’India, tra il 1861 e il 1865, per il fermo di produzione del mercato americano. Inoltre il clima di conflitto che si respirava in tutte le cancellerie d’Europa creava la giusta miscela per la caduta delle quotazioni dei titoli nelle principali Borse europee.
Il 6 giugno 1861 il nuovo Regno d’Italia perse il suo principale artefice, dopo una brevissima malattia, muore a Torino, improvvisamente, il presidente del Consiglio dei Ministri Camillo Benso conte di Cavour. Egli era lo stratega, il politico più grande che il nostro Stato unitario abbia mai avuto, perché pur lasciando alla sua morte fedeli sostenitori del progetto di unificazione del Paese, non lasciò un vero e proprio erede, nessuno dei suoi seguaci era in grado di elaborare una strategia per il completamento dell’unione territoriale e costruire un nuovo Stato alla base di una comunità ampliata e solidale. Si dà inizio ai governi “brevi” (ben sei ministeri si succedettero dal 1861 al 1866), a governi che “navigano a vista” con politiche miopi e di breve durata, incapaci di elaborare e perseguire una strategia di lungo periodo.
Cavour, invece, nei mesi precedenti alla malattia, aveva cercato di definire nei confronti della questione romana una netta posizione governativa. In due discorsi alla Camera, sostenne che solo Roma poteva ricoprire il ruolo di capitale d’Italia e che era necessario procedere alla sua liberazione per unire e cementare le diverse popolazioni italiche, ma che ciò doveva avvenire con “l’accordo” della Francia e senza mai intaccare la libertà spirituale e l’indipendenza del sommo pontefice. In cambio della cessione del potere temporale, al pontefice verrebbe corrisposta una cospicua rendita annua. Era questo il modo di recuperare i rapporti diplomatici con la Francia e in particolar modo quelli con l’imperatore Napoleone III, dopo le tensioni dovute all’assedio di Gaeta.
In linea con questa impostazione, il suo successore al governo Bettino Ricasoli redige un progetto di conciliazione che invia rispettivamente alla Cancelleria francese e a quella dello Stato pontificio; ma tale progetto ottiene un netto rifiuto francese ad aprire una qualsiasi trattativa su quella base.
Nel 1862 a seguito di una delle tante riconciliazioni tra Garibaldi e Mazzini e con l’appoggio dell’Associazione Emancipatrice Italiana si progetta una spedizione di volontari a Roma e subito alcuni ufficiali garibaldini cominciano a raccogliere i volontari. Nel mese di giugno Giuseppe Garibaldi si reca come privato cittadino in Sicilia ed è accolto da grandi manifestazioni popolari e affermando la necessità di una spedizione armata per liberare Roma pone la condizione di trovare un accordo con il re Vittorio Emanuele II. A Marsala promuove il giuramento “o  Roma o morte” e subito l’Associazione Emancipatrice Italiana fa sua la parola d’ordine e aderisce al giuramento. Alcune settimane dopo, trasferitosi a Palermo, Garibaldi organizza la legione romana e annuncia di muovere contro lo Stato pontificio al grido di “Italia e Vittorio Emanuele, o Roma o morte”. Una grave crisi si profila all’orizzonte con la Francia, ostile e pronta all’intervento in difesa dello Stato pontificio.
Al governo italiano non resta che decretare (20 agosto) lo stato d’assedio nelle province napoletane e inviare truppe regolari dell’esercito, al comando del colonnello Pallavicini di Priola, per bloccare la spedizione. Durante un breve conflitto sull’Aspromonte, nient’altro che una scaramuccia, Garibaldi, che era al comando di 1.300 volontari, viene ferito al piede e si arrende, venendo posto agli arresti. Al diffondersi della notizia, che provoca una grande emozione non solo in Italia e violente manifestazioni antigovernative, il Rattazzi cerca senza riuscirci di forzare i tempi di una soluzione diplomatica e infine il 20 novembre 1862 si rassegna e presenta le sue dimissioni dal ministero. I rapporti con la Francia diventano di nuovo gelidi. Segue un lungo lavorio diplomatico per ricostruire i rapporti che permetteranno di stipulare un trattato di libero scambio (17 gennaio 1863) tra i due paesi e nell’anno successivo di gettare le basi di un accordo sulla questione romana. Gioacchino Pepoli, inviato dal nuovo governo presieduto da Marco Minghetti, avanza l’idea di trasferire la capitale d’Italia da Torino ad un’altra città, come segnale dell’abbandono del progetto di fare Roma capitale d’Italia e in cambio chiede alla Francia di procedere al ritiro graduale delle sue truppe di stanza nello Stato pontificio. L’accordo verrà raggiunto ed a Parigi, nell’agosto del medesimo anno, si procederà alla firma “della convenzione di settembre” (15 settembre 1864), che prevedeva il ritiro delle truppe francesi da Roma nell’arco dei successivi due anni, per dare il tempo al governo papale di costituire un suo esercito. In cambio il Regno d’Italia si impegna a rispettare l’integrità dello Stato pontificio. E’ questo un incredibile gioco delle parti, dove tutto è ambiguo, infatti i francesi interpretano l’accordo come una rinuncia definitiva da parte italiana del progetto di Roma capitale, mentre per noi Italiani è null’altro che il primo passo verso la soluzione delle controversie con la Francia e un avvicinamento a Roma. Solo Pio IX esprime delusione e manifesta nuove paure.

Sul versante internazionale ferve la controversia tra la Prussia e l’Austria sulla sorte dei ducati dell’Holstein, dello Schleswig e del Lauenburg di proprietà personale del re di Danimarca e che le due potenze hanno occupato. Entra nel vivo il conflitto, per molti anni latente tra la Prussia e l’Austria, per il primato e l’egemonia sulla Confederazione degli Stati tedeschi.

Otto von Bismarck, presidente del Consiglio prussiano, che già nel 1862 aveva sondato il ministro italiano a Berlino, De Launay sulla possibilità di una alleanza italo-prussiana, incarica il suo ministro a Firenze Conte Usedom di sondare il capo del governo Alfonso Ferrero La Marmora in relazione a quale atteggiamento avrebbe assunto il suo governo nel caso di una probabile guerra tra la Prussia e l’Austria. La Marmora risponde che non può prendere nessun impegno senza prima conoscere quale atteggiamento sarebbe stato a sua volta preso dalla Francia in merito a tale questione. Per questo motivo incarica il ministro italiano a Parigi, Costantino Nigra, di sondare sulla questione il ministro degli Esteri francese Drouyn de Lhuys, il quale suggerì “prudenza e di attendere gli eventi”. Bismarck, insoddisfatto della risposta italiana e soprattutto dell’atteggiamento ambiguo dell’Imperatore francese Napoleone III decise, provvisoriamente, di stipulare la Convenzione di Gestein con l’Austria, conservando quindi per la Prussia l’amministrazione del ducato dello Schleswig e lasciando all’Austria il ducato dell’Holstein. Successivamente all’incontro di Biarritz, tra Napoleone III e Bismarck, dei primi di ottobre del 1865, Bismarck rassicurato riprese la politica che mirava ad arrivare alla guerra e ad unificare la nazione tedesca con l’esclusione dell’Austria. Probabilmente in questo incontro Napoleone III sperò di ottenere un ingrandimento territoriale della Francia sul Reno e sul Belgio, promettendo di mantenere la neutralità nel conflitto tra Prussia e Austria, mentre Bismarck chiese a sua volta l’intervento dell’Italia nel prossimo conflitto, che mirava a conquistare il Veneto (già promesso da Napoleone III) dal 1859 e poter attaccare su due fronti l’Austria, come era stato progettato nel Consiglio della corona prussiana del 29 maggio 1865. A questo accordo verbale fece seguito da parte di La Marmora  un tentativo di trattativa diretta con l’Austria per ottenere la cessione del Veneto, contando molto sulla minaccia di una  guerra sui due fronti per ammorbidire l’intransigenza austriaca. Nell’ottobre del 1865 incaricò un suo rappresentante personale, il conte reggiano, Alessandro Malaguzzi – Valeri, che aveva autorevoli amici e parenti a Vienna, di intraprendere una trattativa segreta con il conte Belcredi, presidente del Consiglio austriaco, per la cessione del Veneto a fronte di una indennità versata dall’Italia di un miliardo di lire. Pur riscontrando da parte del governo austriaco un interesse favorevole alla proposta, la dura opposizione dell’imperatore Francesco Giuseppe e della sua corte fece fallire la trattativa. Non restava altro che seguire i consigli francesi che invitavano ad orientarsi verso la politica antiaustriaca di Bismarck.

Il 31 dicembre 1865, Alfonso Ferrero La Marmora costituisce il suo secondo ministero, dopo una lunga e difficile crisi di governo nata dalla sfiducia votata dal Parlamento in relazione al decreto legge relativo al servizio di tesoreria statale da affidarsi alla Banca Nazionale. Provvedimento economico che avrebbe aggravato ulteriormente la crisi di debito del Regno d’Italia. Oltre alla presidenza del Consiglio mantenne per sé il ministero degli Esteri e chiamò al ministero della Guerra il generale Ignazio di Pettinengo e ai Lavori pubblici Stefano Jacini che fu il suo più ascoltato consigliere nella fase preparatoria della guerra.
Nel frattempo i rapporti austro-prussiani si fecero sempre più tesi e aumentarono le probabilità della guerra. A seguito della decisione presa dal Consiglio dei Ministri prussiano del 28 febbraio 1866, Bismarck chiese a La Marmora di inviare a Berlino un alto ufficiale per trattare un’alleanza militare. La Marmora scelse di inviare il generale Govone con l’incarico di verificare la preparazione militare prussiana, che nell’occupazione dei ducati non aveva particolarmente brillato per preparazione militare e di restare sul vago sulle questioni diplomatiche. Anche perché il suo invio era stato sollecitato al governo italiano da parte di Napoleone III che mirava ad una alleanza tra Italia e Prussia. Napoleone III in questa complicata partita, dalla quale sperava di acquisire per la Francia ingrandimenti territoriali, con il consenso della Confederazione germanica usava l’Italia come una pedina da muovere a suo piacimento sullo scacchiere politico continentale. Egli voleva che l’Italia ottenesse il Veneto ma senza una guerra o con una guerra non seriamente combattuta in modo tale che il merito fosse suo e della Francia; in questo modo mirava ad esercitare sul giovane Regno d’Italia un semi protettorato. Per lui l’Italia unita doveva diventare una potenza di rango inferiore, strettamente legata agli interessi politico economici francesi. L’8 aprile 1866 a Berlino, l’Italia firma un trattato segreto di alleanza con la Prussia, un trattato a “tempo determinato” valido per soli 3 mesi a partire dalla data della firma apposta per noi dal generale Govone e dal ministro a Berlino conte Barral. Era questa una alleanza “offensiva-difensiva” in cui l’Italia si impegnava a dichiarare guerra all’Austria appena la Prussia avesse iniziato le ostilità; ognuno dei due Stati si impegnò a non concludere armistizio o pace senza il consenso dell’altra, fino a quando l’Austria non avesse accettato di cedere il Veneto e la provincia di Mantova all’Italia e alla Prussia territori equivalenti per popolazione.

Il trattato era squilibrato ed a favore della Prussia, non veniva menzionato il Trentino, per un netto rifiuto di Bismark che lo considerava parte integrante dell’Impero Austro-ungarico, anche se verbalmente e in privato, garantiva che avrebbe appoggiato tale richiesta una volta giunti al tavolo della pace e solo se durante la guerra l’Italia fosse riuscita ad impadronirsi del territorio. Il trattato era alquanto umiliante per l’Italia per la sua unilateralità, infatti la Prussia non assumeva nessun impegno nei confronti dell’Italia. Inoltre un madornale errore di valutazione di La Marmora complicò la situazione, egli rifiutò la proposta avanzata dal generale Govone di allegare al trattato una convenzione militare, che avrebbe permesso di conoscere in precedenza i piani prussiani e quindi di coordinare i propri impegni sulla effettiva condotta della guerra. Ciò generò ulteriore diffidenza da parte prussiana sulla reale volontà italiana di condurre la guerra con impegno ed energia. Era impensabile per i nostri governanti una politica diversa perché troppo esposti politicamente e finanziariamente con l’ambigua politica di Bonaparte.

Il 3 maggio 1866 il governo prussiano iniziò la mobilitazione e a seguito di ciò il 5 maggio il governo austriaco fece sapere a Parigi di essere disposto a cedere il Veneto a Napoleone III, affinché tramite lui fosse ceduto all’Italia a patto che l’Italia rompesse l’alleanza con la Prussia e si dichiarasse neutrale. La Marmora, colto di sorpresa dall’offerta austriaca, rifiutò cercando al tempo stesso di guadagnare tempo e proponendo un congresso internazionale con le principali potenze del Continente per definire la controversia tra Italia-Prussia-Austria. Questa proposta sfumò definitivamente alcune settimane dopo quando una nota austriaca (1 giugno) dichiarò di essere pronta a partecipare al congresso a patto che fossero esclusi dalle risoluzioni finali modifiche e ingrandimenti territoriali. Il 12 giugno avveniva la rottura definitiva delle relazioni diplomatiche tra Berlino e Vienna e nello stesso giorno, sempre a Vienna, veniva firmato un accordo tra l’Austria e la Francia, in base alla quale la Francia si impegnava a rimanere neutrale nel conflitto che opponeva l’Austria alla Prussia; Napoleone III si impegnava a sua volta a fare il possibile perché l’Italia restasse neutrale o conducesse la “guerra senza impegno” e l’Austria a sua volta si impegnava a cedere il Veneto a Napoleone III al quale garantiva ulteriori compensi territoriali nel caso di vittoria da parte sua e con modificazioni territoriali in Germania. Infine Napoleone III si impegnava a sua volta a cedere il Veneto all’Italia in cambio di una indennità all’Austria e del riconoscimento da parte italiana del potere temporale dei papi. Il giorno stesso della firma, Napoleone III convocò il ministro italiano a Parigi, Costantino Nigra, e nel colloquio che seguì informò ufficialmente di quanto sottoscritto a Vienna e chiese a Nigra che “l’Italia non facesse guerra con troppo vigore”.

Otto giorni prima della dichiarazione di guerra all’Austria, per noi la guerra era già vinta. A questo punto il 17 giugno (giorno della dichiarazione di guerra della Prussia all’Austria) Alfonso Ferrero La Marmora si dimette da presidente del consiglio restando in ogni caso ministro senza portafoglio e assume il comando dello Stato maggiore raggiungendo il Re al fronte. Al suo posto di Presidente del Consiglio subentra Bettino Ricasoli che ad interim assume anche il ministero degli esteri e quello dell’interno.
Inizia la Terza Guerra d’Indipendenza e dà vita alle sue battaglie che si ricostruisce con perizia e nel dettaglio, ispirandosi alla perizia e alla precisione propria dello storico militare e del militare di carriera, più precisamente dell’ufficiale in servizio di Stato Maggiore fedele ai principi e alla filosofia di chi ideò e progettò tale servizio; ossia uno dei massimi protagonisti di questa guerra il generale Helmuth Karl Bernhard von Moltke Capo di Stato Maggiore dell’Esercito prussiano nella guerra dell’1866.
Ogni guerra ha caratteristiche sue proprie e differisce dalle precedenti, questa ha caratteri suoi peculiari; è la prima del giovane Regno d’Italia; la forza italiana è quadruplicata in confronto a quella del Regno di Sardegna, 20 divisioni contro 5; la Cavalleria, anche se pesante, muove 100 squadroni e solo l’artiglieria è poco numerosa, anche se di maggior calibro il che la rende meno mobile. La deficienza maggiore, per il nostro esercito riguardava il “quadro ufficiali” fortemente eterogeneo (ciò era dovuto all’assorbimento nell’esercito sardo dei quadri di diversa provenienza: borbonica, toscana, dello Stato Pontificio e dell’armata garibaldina) e di diversa preparazione e capacità militare. In modo particolare mancavano comandanti capaci a livello di battaglione e di reggimento. I comandanti di brigata erano personalmente coraggiosi, ma la loro cultura professionale era a dir poco scarsa. Per non parlare della totale assenza di uno Stato Maggiore e di vertici politico militari in concorrenza e in contrasto tra di loro. Ai nostri 258.000 combattenti effettivi (250.000 del Regio esercito più 38.000 volontari garibaldini) su 565.000 uomini mobilitati con 462 cannoni si opponevano 61.000 combattenti austriaci su 190.000 mobilitati e 152 cannoni, con un rapporto a nostro favore di tre a uno, eppure non riuscimmo a vincere sul campo. Non avevamo un piano, dividemmo le nostre forze tra il Mincio (12 divisioni) e il Po (8 divisioni), dividemmo il comando tra La Marmora e il Cialdini ed infine il primo giorno di scontro ci demmo per vinti con ben 15 divisioni integre che non avevano preso parte neanche ad una scaramuccia e con 320.000 uomini di riserva. Alla “figuraccia” del nostro esercito i vertici politico militari cercarono di rimediare sul fronte del mare, dove la nostra flotta, potente “sulla carta e non sul mare”, regalò al Paese un’altra amara sconfitta.
 Arrivati a questo punto non ci restò, il 3 settembre 1866, che firmare la pace che conservava l’umiliante clausola della cessione del Veneto all’Italia attraverso la consegna da parte della Francia di Napoleone III. L’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe riconobbe il Regno d’Italia, riconsegnò la “corona ferrea” che gli Austriaci al termine della guerra del 1859 avevano portato a Vienna e noi ci accollammo altri 91 milioni di debito pubblico del Veneto.
Questa nostra prima guerra in Italia fu una impresa assolutamente deludente e generò durissime polemiche in tutto il Paese negli anni successivi. I nostri vertici politico – militari a cominciare da Alfonso Ferrero La Marmora e dal Cialdini furono impari al loro compito, non seppero impostare e condurre con efficienza la guerra anche perché il governo italiano preparò diplomaticamente la guerra con la speranza di non farla e con la certezza di aver ottenuto il proprio premio ancora prima di iniziarla.

La brutta figura e la rabbia popolare crescente nel paese imposero di trovare un colpevole e quindi, il 1 dicembre 1866, fu arrestato l’ammiraglio Persano per essere giudicato dal Senato, costituito in Alta Corte di giustizia, sulle sue responsabilità nella battaglia di Lissa, ma molti altri avrebbero dovuto comparire con lui come chiaramente afferma Carlo Cattaneo in una sua lettera inviata il 9 ottobre 1866 al senatore Giuseppe Muzio:  Ormai, nella memoria della nazione e delle nazioni – e nella coscienza del soldato – Custoza e Lissa sono parte d’un reato solo. Nessuno ha ormai forza di sciogliere quel nodo. Il Senato è giudice unico e supremo dei colpevoli: può, se vuole, assolver tutti, ma deve giudicare tutti. Anzi, se v’è reato, il suo punto culminante è già Custoza. Lissa è il tardo e inutile strascico d’una guerra morta. Se potè avere un proposito doloso, è solo in quanto fosse intesa a ostentare, oltre ad un’impotenza militare del Regno, anche una impotenza marittima. Solo la presenza d’un accordo segreto può spiegare un simulacro di guerra di cui non v’ha forse esempio al mondo. Esser liberi d’ogni movimento, anche nelle giurisdizioni federali germaniche del Tirolo e dell’Istria; avere a fronte un nemico già umiliato e vacillante, ricinto, fin entro le sue montagne, le sue fortezze e le sue navi, da tre milioni di popolo fremente; avere in pugno più di 300.000 soldati; portarne al fuoco, per volontà premeditata, nemmeno la quinta parte; e darsi vinti, come per “disastro irreparabile” è una sì strana prova d’arte militare che non è lecito imputarla a nudo errore. Il Senato non può esigere il rendiconto di Lissa senza esigere il rendiconto di Custoza (…). A Lissa non si vede come a Custoza il proposito sofistico di vincere senza vincere, non si vede l’umile accordo con lo straniero imperioso, il vile accordo col burbero nemico, non si vede il traffico dell’onore col guadagno, la guerra finta eppur sanguinosa che pone per sempre nel cuore del soldato non la fiducia della vittoria, ma il ghiaccio del sospetto. E’ per queste arti indegne che l’Italia aveva perduto a memoria nostra l’onore delle armi” Centocinquant’anni dopo queste parole di Cattaneo, che colgono nel segno tutto l’operato della guerra dell’’86 e che invitano al rinnovamento morale e culturale del Paese per divenire uno Stato moderno, ci appaiono terribilmente attuali nella nostra terra italica, nella terra dei “gattopardi”, dove tutto sembra che cambi, ma dove non cambia mai nulla.
Giancarlo Ramaccia


[1] Sonnino S., Diario 1866-1912, Bari, Laterza, 1972, vol. I, pag.43