Capitano di Fregata Faa di Bruno
Il 20 giugno 1866 fu consegnata all’arciduca Alberto
d’Asburgo, comandante supremo delle forze austriache dislocate in Italia, la dichiarazione
di guerra del Regno d’Italia, che fissava al giorno 23 del medesimo mese
l’inizio delle ostilità. Come al solito entrammo in guerra con tre giorni di
ritardo dalla dichiarazione e sei giorni dall’inizio delle ostilità rispetto a
quanto precedentemente pattuito con il nostro alleato prussiano. Tale ritardo
non poteva che irritare notevolmente e aumentare la diffidenza dei vertici
politico-militari di Berlino, che già di loro dubitavano delle buone intenzioni
dei vertici del giovane Regno d’Italia.
In ogni caso la dichiarazione di guerra, presentata
all’impero austro-ungarico, fu accolta nel paese con grandi manifestazioni di
consenso, accese grandi aspettative nella popolazione e produsse una straordinaria
eccitazione patriottica, come ben documenta, nel suo diario, Sidney Sonnino,
allora giovane ed entusiasta patriota toscano: “Gran giorno per l’Italia! Per la prima volta in tutta la sua storia
essa si solleva tutta a rivendicare sola il suo diritto! Mai, mai si è visto un
fatto simile. Felici noi che vi assistiamo!”[1]. Per il Sonnino, come per molti se non per
tutti, la nuova guerra sarebbe stata breve e vittoriosa. In nessun caso si
valutarono le conseguenze di una possibile sconfitta. Dopo le non brillanti
vicende militari degli anni precedenti, come la guerra del 1848/49, il buon
senso avrebbe dovuto suggerire una valutazione
“più cauta” da parte dei vertici politico-militari italiani. Invece, l’essere
sconfitti risultava impensabile e inaccettabile da tutti gli appartenenti al
nostro ceto dirigente, anche perché le conseguenze politiche erano troppo
spaventose da sostenere per il giovane e debole Stato unitario. Poi gli
Austriaci non combattevano su due fronti? Il nuovo esercito italiano contava
ora ben venti divisioni e non più le cinque piccole divisioni del Regno di
Sardegna della guerra precedente. La nostra flotta era il doppio di quella
austriaca e con un numero maggiore di
corazzate, dodici contro le sette austriache, quindi sulla carta e solo sulla
carta il Regno d’Italia aveva tutti i numeri e il diritto di aspettarsi una
vittoria. Anche per questo motivo ciò che avvenne nelle settimane successive fu
traumatico e profondamente doloroso per tutto il Paese.
Per comprendere al meglio la situazione si deve ampliare il
quadro alle vicende politiche degli anni precedenti e agli enormi problemi che
il giovane Stato dovette affrontare. Ben cinque furono le questioni principali
e tutte intrecciate tra loro, ossia: il brigantaggio in larga parte del Paese;
la crisi economica; la morte del Conte di Cavour; la questione romana e la
conseguente crisi dei rapporti con la Francia, in particolar modo con
l’imperatore Napoleone III; la costruzione del nuovo Esercito unitario.
Tralasciamo le questioni minori ma che minori, per il giovane nascente Stato
unitario, non furono.
Il 15 febbraio 1861 il Re delle Due Sicilie Francesco II di
Borbone, proclama la resa della fortezza di Gaeta dove si era rifugiato dopo le
sconfitte subite ad opera dell’armata garibaldina e il successivo intervento
sabaudo, imbarcandosi, dopo una lunga trattativa diplomatica, su una nave
francese che lo porterà a Roma dove rimarrà in esilio, ospite di Papa Pio IX.
Solo dopo il gen. Cialdini potrà occupare la cittadina laziale che ha assediato
e bombardato per ben 102 giorni. Successivamente anche le guarnigioni
borboniche della cittadella di Messina e quella di Civitella del Tronto (Ascoli
Piceno) si arrenderanno definitivamente, ma nuclei rimasti fedeli a Francesco
II continueranno a combattere unendosi a bande di contadini poveri e briganti,
dando vita a una lunga guerriglia a cui si darà il nome di “brigantaggio”.
Questa insorgenza sociale era frutto di povertà endemica, di
patti agrari esosissimi, di nuovi inasprimenti fiscali, di una nuova ed errata
leva obbligatoria che provocò una disperata guerriglia dei contadini contro i
proprietari terrieri e il nuovo governo “piemontese” che fu abilmente sfruttata
politicamente da chi desiderava restaurare il Regno delle Due Sicilie. La rivolta
armata scoppiò nell’aprile del 1861 in Basilicata e si estese a quasi tutto il
meridione continentale.
Il nascente Regno d’Italia provò inizialmente a mediare
politicamente con i legittimisti borbonici, nel tentativo di contenere il
fenomeno, poi diede seguito ad una feroce e indiscriminata repressione. Migliaia
di insorti, alzando le bandiere bianche borboniche, occuparono province e
paesi, trucidando cittadini comuni, guardie nazionali e scontrandosi con i
soldati italiani. La risposta fu durissima da parte dello Stato unitario:
fucilazioni indiscriminate e senza alcun processo, interi paesi bombardati e
incendiati, deportazioni di massa; tutto ciò accrebbe l’ostilità della
popolazione meridionale nei confronti del nuovo Regno, di “quello dei piemontesi”.
Se i soldati impiegati nel meridione furono non più di 50.000 nel 1861, solo
tre anni dopo se ne impiegarono 120.000, ossia circa il 50% delle forze armate
dello Stato. Esse svolsero prevalentemente compiti di ordine pubblico e di
polizia, tralasciando l’addestramento e la preparazione militare, per
dedicarsi, a tempo pieno, a combattere e reprimere questa vera e propria guerra
civile. I dati ufficiali ci dicono che tra il 1861 e il 1865 (un anno prima
dell’inizio della terza guerra di indipendenza) furono uccisi in combattimento
o fucilati 5.212 “cosiddetti briganti” e altri 5.000 furono arrestati e carcerati, ma i dati
ufficiosi parlano e raccontano un’altra verità, ossia di ben 15.000 o 20.000
uomini eliminati. Ciò produsse una lacerazione nel tessuto politico e sociale
di cui a tutt’oggi ne riscontriamo le conseguenze. A questo gravissimo problema
si aggiunse, per il nuovo Stato – che si era costituito a Torino il 18 marzo
1861 con la proclamazione da parte del primo parlamento italiano del Regno d’Italia
– una serie di gravissimi problemi finanziari.
Essi erano il frutto dei costi per l’unificazione nazionale
che comprendevano le spese sostenute per le guerre di unificazione con
l’aggiunta del consolidamento dei debiti ereditati dai periodi precedenti e
dovuti ai sette Stati pre unitari e alle ben nove amministrazioni finanziarie
che avevano sistemi monetari diversi, diversi modi di contabilizzare oltre a
diversi criteri di imposizione fiscale e di riscossione delle imposte. Sommando
tutti questi costi risultò, per il nuovo Stato, un debito pubblico esorbitante,
ossia 111.500.000 lire. A questa enormità si dovette far fronte con soluzioni
che risultarono non risolutive ed efficaci, anzi aggravarono ulteriormente la
già difficile situazione economica.
Allo scoppio della guerra dell’ottantasei questo problema
parve addirittura insormontabile, con le entrate effettive dello Stato che coprivano
appena i due terzi delle uscite e con una sicura prospettiva di incremento,
dovuta alle nuove spese che si dovevano sostenere per la nuova guerra.
All’enorme disavanzo si provvedeva con l’emissione di nuovi titoli di debito a
copertura dei prestiti esteri, proprio nel momento in cui una crisi economica
gravissima si abbatteva sui mercati borsistici europei (Borsa di Londra e
Parigi) dovuta in gran parte agli enormi prestiti americani per la guerra di
secessione e al pagamento delle grandi quantità di cotone importate dall’India,
tra il 1861 e il 1865, per il fermo di produzione del mercato americano.
Inoltre il clima di conflitto che si respirava in tutte le cancellerie d’Europa
creava la giusta miscela per la caduta delle quotazioni dei titoli nelle
principali Borse europee.
Il 6 giugno 1861 il nuovo Regno d’Italia perse il suo
principale artefice, dopo una brevissima malattia, muore a Torino, improvvisamente,
il presidente del Consiglio dei Ministri Camillo Benso conte di Cavour. Egli
era lo stratega, il politico più grande che il nostro Stato unitario abbia mai
avuto, perché pur lasciando alla sua morte fedeli sostenitori del progetto di
unificazione del Paese, non lasciò un vero e proprio erede, nessuno dei suoi
seguaci era in grado di elaborare una strategia per il completamento
dell’unione territoriale e costruire un nuovo Stato alla base di una comunità
ampliata e solidale. Si dà inizio ai governi “brevi” (ben sei ministeri si
succedettero dal 1861 al 1866), a governi che “navigano a vista” con politiche
miopi e di breve durata, incapaci di elaborare e perseguire una strategia di
lungo periodo.
Cavour, invece, nei mesi precedenti alla malattia, aveva
cercato di definire nei confronti della questione romana una netta posizione
governativa. In due discorsi alla Camera, sostenne che solo Roma poteva
ricoprire il ruolo di capitale d’Italia e che era necessario procedere alla sua
liberazione per unire e cementare le diverse popolazioni italiche, ma che ciò
doveva avvenire con “l’accordo” della Francia e senza mai intaccare la libertà
spirituale e l’indipendenza del sommo pontefice. In cambio della cessione del
potere temporale, al pontefice verrebbe corrisposta una cospicua rendita annua.
Era questo il modo di recuperare i rapporti diplomatici con la Francia e in
particolar modo quelli con l’imperatore Napoleone III, dopo le tensioni dovute
all’assedio di Gaeta.
In linea con questa impostazione, il suo successore al
governo Bettino Ricasoli redige un progetto di conciliazione che invia
rispettivamente alla Cancelleria francese e a quella dello Stato pontificio; ma
tale progetto ottiene un netto rifiuto francese ad aprire una qualsiasi
trattativa su quella base.
Nel 1862 a seguito di una delle tante riconciliazioni tra
Garibaldi e Mazzini e con l’appoggio dell’Associazione Emancipatrice Italiana
si progetta una spedizione di volontari a Roma e subito alcuni ufficiali garibaldini
cominciano a raccogliere i volontari. Nel mese di giugno Giuseppe Garibaldi si
reca come privato cittadino in Sicilia ed è accolto da grandi manifestazioni
popolari e affermando la necessità di una spedizione armata per liberare Roma
pone la condizione di trovare un accordo con il re Vittorio Emanuele II. A
Marsala promuove il giuramento “o Roma o morte” e subito l’Associazione Emancipatrice Italiana fa sua la parola
d’ordine e aderisce al giuramento. Alcune settimane dopo, trasferitosi a
Palermo, Garibaldi organizza la legione romana e annuncia di muovere contro lo
Stato pontificio al grido di “Italia e
Vittorio Emanuele, o Roma o morte”. Una grave crisi si profila
all’orizzonte con la Francia, ostile e pronta all’intervento in difesa dello
Stato pontificio.
Al governo italiano non resta che decretare (20 agosto) lo
stato d’assedio nelle province napoletane e inviare truppe regolari
dell’esercito, al comando del colonnello Pallavicini di Priola, per bloccare la
spedizione. Durante un breve conflitto sull’Aspromonte, nient’altro che una
scaramuccia, Garibaldi, che era al comando di 1.300 volontari, viene ferito al
piede e si arrende, venendo posto agli arresti. Al diffondersi della notizia,
che provoca una grande emozione non solo in Italia e violente manifestazioni antigovernative,
il Rattazzi cerca senza riuscirci di forzare i tempi di una soluzione diplomatica
e infine il 20 novembre 1862 si rassegna e presenta le sue dimissioni dal
ministero. I rapporti con la Francia diventano di nuovo gelidi. Segue un lungo
lavorio diplomatico per ricostruire i rapporti che permetteranno di stipulare
un trattato di libero scambio (17 gennaio 1863) tra i due paesi e nell’anno
successivo di gettare le basi di un accordo sulla questione romana. Gioacchino
Pepoli, inviato dal nuovo governo presieduto da Marco Minghetti, avanza l’idea
di trasferire la capitale d’Italia da Torino ad un’altra città, come segnale
dell’abbandono del progetto di fare Roma capitale d’Italia e in cambio chiede
alla Francia di procedere al ritiro graduale delle sue truppe di stanza nello
Stato pontificio. L’accordo verrà raggiunto ed a Parigi, nell’agosto del
medesimo anno, si procederà alla firma “della convenzione di settembre” (15
settembre 1864), che prevedeva il ritiro delle truppe francesi da Roma
nell’arco dei successivi due anni, per dare il tempo al governo papale di costituire
un suo esercito. In cambio il Regno d’Italia si impegna a rispettare
l’integrità dello Stato pontificio. E’ questo un incredibile gioco delle parti,
dove tutto è ambiguo, infatti i francesi interpretano l’accordo come una
rinuncia definitiva da parte italiana del progetto di Roma capitale, mentre per
noi Italiani è null’altro che il primo passo verso la soluzione delle
controversie con la Francia e un avvicinamento a Roma. Solo Pio IX esprime
delusione e manifesta nuove paure.
Sul versante internazionale ferve la controversia tra la
Prussia e l’Austria sulla sorte dei ducati dell’Holstein, dello Schleswig e del
Lauenburg di proprietà personale del re di Danimarca e che le due potenze hanno
occupato. Entra nel vivo il conflitto, per molti anni latente tra la Prussia e
l’Austria, per il primato e l’egemonia sulla Confederazione degli Stati
tedeschi.
Otto von Bismarck, presidente del Consiglio prussiano, che
già nel 1862 aveva sondato il ministro italiano a Berlino, De Launay sulla
possibilità di una alleanza italo-prussiana, incarica il suo ministro a Firenze
Conte Usedom di sondare il capo del governo Alfonso Ferrero La Marmora in
relazione a quale atteggiamento avrebbe assunto il suo governo nel caso di una
probabile guerra tra la Prussia e l’Austria. La Marmora risponde che non può
prendere nessun impegno senza prima conoscere quale atteggiamento sarebbe stato
a sua volta preso dalla Francia in merito a tale questione. Per questo motivo
incarica il ministro italiano a Parigi, Costantino Nigra, di sondare sulla
questione il ministro degli Esteri francese Drouyn de Lhuys, il quale suggerì
“prudenza e di attendere gli eventi”. Bismarck, insoddisfatto della risposta italiana
e soprattutto dell’atteggiamento ambiguo dell’Imperatore francese Napoleone III
decise, provvisoriamente, di stipulare la Convenzione di Gestein con l’Austria,
conservando quindi per la Prussia l’amministrazione del ducato dello Schleswig
e lasciando all’Austria il ducato dell’Holstein. Successivamente all’incontro
di Biarritz, tra Napoleone III e Bismarck, dei primi di ottobre del 1865,
Bismarck rassicurato riprese la politica che mirava ad arrivare alla guerra e
ad unificare la nazione tedesca con l’esclusione dell’Austria. Probabilmente in
questo incontro Napoleone III sperò di ottenere un ingrandimento territoriale
della Francia sul Reno e sul Belgio, promettendo di mantenere la neutralità nel
conflitto tra Prussia e Austria, mentre Bismarck chiese a sua volta
l’intervento dell’Italia nel prossimo conflitto, che mirava a conquistare il
Veneto (già promesso da Napoleone III) dal 1859 e poter attaccare su due fronti
l’Austria, come era stato progettato nel Consiglio della corona prussiana del
29 maggio 1865. A questo accordo verbale fece seguito da parte di La
Marmora un tentativo di trattativa
diretta con l’Austria per ottenere la cessione del Veneto, contando molto sulla
minaccia di una guerra sui due fronti
per ammorbidire l’intransigenza austriaca. Nell’ottobre del 1865 incaricò un
suo rappresentante personale, il conte reggiano, Alessandro Malaguzzi – Valeri,
che aveva autorevoli amici e parenti a Vienna, di intraprendere una trattativa
segreta con il conte Belcredi, presidente del Consiglio austriaco, per la
cessione del Veneto a fronte di una indennità versata dall’Italia di un
miliardo di lire. Pur riscontrando da parte del governo austriaco un interesse
favorevole alla proposta, la dura opposizione dell’imperatore Francesco
Giuseppe e della sua corte fece fallire la trattativa. Non restava altro che
seguire i consigli francesi che invitavano ad orientarsi verso la politica
antiaustriaca di Bismarck.
Il 31 dicembre 1865, Alfonso Ferrero La Marmora costituisce
il suo secondo ministero, dopo una lunga e difficile crisi di governo nata
dalla sfiducia votata dal Parlamento in relazione al decreto legge relativo al
servizio di tesoreria statale da affidarsi alla Banca Nazionale. Provvedimento
economico che avrebbe aggravato ulteriormente la crisi di debito del Regno
d’Italia. Oltre alla presidenza del Consiglio mantenne per sé il ministero
degli Esteri e chiamò al ministero della Guerra il generale Ignazio di
Pettinengo e ai Lavori pubblici Stefano Jacini che fu il suo più ascoltato
consigliere nella fase preparatoria della guerra.
Nel frattempo i rapporti austro-prussiani si fecero sempre
più tesi e aumentarono le probabilità della guerra. A seguito della decisione
presa dal Consiglio dei Ministri prussiano del 28 febbraio 1866, Bismarck
chiese a La Marmora di inviare a Berlino un alto ufficiale per trattare
un’alleanza militare. La Marmora scelse di inviare il generale Govone con
l’incarico di verificare la preparazione militare prussiana, che
nell’occupazione dei ducati non aveva particolarmente brillato per preparazione
militare e di restare sul vago sulle questioni diplomatiche. Anche perché il
suo invio era stato sollecitato al governo italiano da parte di Napoleone III
che mirava ad una alleanza tra Italia e Prussia. Napoleone III in questa complicata
partita, dalla quale sperava di acquisire per la Francia ingrandimenti
territoriali, con il consenso della Confederazione germanica usava l’Italia
come una pedina da muovere a suo piacimento sullo scacchiere politico
continentale. Egli voleva che l’Italia ottenesse il Veneto ma senza una guerra
o con una guerra non seriamente combattuta in modo tale che il merito fosse suo
e della Francia; in questo modo mirava ad esercitare sul giovane Regno d’Italia
un semi protettorato. Per lui l’Italia unita doveva diventare una potenza di
rango inferiore, strettamente legata agli interessi politico economici
francesi. L’8 aprile 1866 a Berlino, l’Italia firma un trattato segreto di
alleanza con la Prussia, un trattato a “tempo determinato” valido per soli 3
mesi a partire dalla data della firma apposta per noi dal generale Govone e dal
ministro a Berlino conte Barral. Era questa una alleanza “offensiva-difensiva”
in cui l’Italia si impegnava a dichiarare guerra all’Austria appena la Prussia
avesse iniziato le ostilità; ognuno dei due Stati si impegnò a non concludere
armistizio o pace senza il consenso dell’altra, fino a quando l’Austria non
avesse accettato di cedere il Veneto e la provincia di Mantova all’Italia e
alla Prussia territori equivalenti per popolazione.
Il trattato era squilibrato ed a favore della Prussia, non
veniva menzionato il Trentino, per un netto rifiuto di Bismark che lo considerava
parte integrante dell’Impero Austro-ungarico, anche se verbalmente e in
privato, garantiva che avrebbe appoggiato tale richiesta una volta giunti al
tavolo della pace e solo se durante la guerra l’Italia fosse riuscita ad
impadronirsi del territorio. Il trattato era alquanto umiliante per l’Italia
per la sua unilateralità, infatti la Prussia non assumeva nessun impegno nei
confronti dell’Italia. Inoltre un madornale errore di valutazione di La Marmora
complicò la situazione, egli rifiutò la proposta avanzata dal generale Govone
di allegare al trattato una convenzione militare, che avrebbe permesso di
conoscere in precedenza i piani prussiani e quindi di coordinare i propri
impegni sulla effettiva condotta della guerra. Ciò generò ulteriore diffidenza
da parte prussiana sulla reale volontà italiana di condurre la guerra con
impegno ed energia. Era impensabile per i nostri governanti una politica
diversa perché troppo esposti politicamente e finanziariamente con l’ambigua
politica di Bonaparte.
Il 3 maggio 1866 il governo prussiano iniziò la
mobilitazione e a seguito di ciò il 5 maggio il governo austriaco fece sapere a
Parigi di essere disposto a cedere il Veneto a Napoleone III, affinché tramite
lui fosse ceduto all’Italia a patto che l’Italia rompesse l’alleanza con la
Prussia e si dichiarasse neutrale. La Marmora, colto di sorpresa dall’offerta
austriaca, rifiutò cercando al tempo stesso di guadagnare tempo e proponendo un
congresso internazionale con le principali potenze del Continente per definire
la controversia tra Italia-Prussia-Austria. Questa proposta sfumò
definitivamente alcune settimane dopo quando una nota austriaca (1 giugno)
dichiarò di essere pronta a partecipare al congresso a patto che fossero
esclusi dalle risoluzioni finali modifiche e ingrandimenti territoriali. Il 12
giugno avveniva la rottura definitiva delle relazioni diplomatiche tra Berlino
e Vienna e nello stesso giorno, sempre a Vienna, veniva firmato un accordo tra
l’Austria e la Francia, in base alla quale la Francia si impegnava a rimanere
neutrale nel conflitto che opponeva l’Austria alla Prussia; Napoleone III si
impegnava a sua volta a fare il possibile perché l’Italia restasse neutrale o
conducesse la “guerra senza impegno”
e l’Austria a sua volta si impegnava a cedere il Veneto a Napoleone III al
quale garantiva ulteriori compensi territoriali nel caso di vittoria da parte
sua e con modificazioni territoriali in Germania. Infine Napoleone III si
impegnava a sua volta a cedere il Veneto all’Italia in cambio di una indennità
all’Austria e del riconoscimento da parte italiana del potere temporale dei
papi. Il giorno stesso della firma, Napoleone III convocò il ministro italiano
a Parigi, Costantino Nigra, e nel colloquio che seguì informò ufficialmente di
quanto sottoscritto a Vienna e chiese a Nigra che “l’Italia non facesse guerra con troppo vigore”.
Otto giorni prima della dichiarazione di guerra all’Austria,
per noi la guerra era già vinta. A questo punto il 17 giugno (giorno della dichiarazione
di guerra della Prussia all’Austria) Alfonso Ferrero La Marmora si dimette da
presidente del consiglio restando in ogni caso ministro senza portafoglio e
assume il comando dello Stato maggiore raggiungendo il Re al fronte. Al suo
posto di Presidente del Consiglio subentra Bettino Ricasoli che ad interim
assume anche il ministero degli esteri e quello dell’interno.
Inizia la Terza Guerra d’Indipendenza e dà vita alle sue
battaglie che si ricostruisce con perizia e nel dettaglio, ispirandosi alla
perizia e alla precisione propria dello storico militare e del militare di
carriera, più precisamente dell’ufficiale in servizio di Stato Maggiore fedele
ai principi e alla filosofia di chi ideò e progettò tale servizio; ossia uno
dei massimi protagonisti di questa guerra il generale Helmuth Karl Bernhard von
Moltke Capo di Stato Maggiore dell’Esercito prussiano nella guerra dell’1866.
Ogni guerra ha caratteristiche sue proprie e differisce
dalle precedenti, questa ha caratteri suoi peculiari; è la prima del giovane Regno
d’Italia; la forza italiana è quadruplicata in confronto a quella del Regno di
Sardegna, 20 divisioni contro 5; la Cavalleria, anche se pesante, muove 100
squadroni e solo l’artiglieria è poco numerosa, anche se di maggior calibro il
che la rende meno mobile. La deficienza maggiore, per il nostro esercito
riguardava il “quadro ufficiali” fortemente eterogeneo (ciò era dovuto
all’assorbimento nell’esercito sardo dei quadri di diversa provenienza:
borbonica, toscana, dello Stato Pontificio e dell’armata garibaldina) e di
diversa preparazione e capacità militare. In modo particolare mancavano
comandanti capaci a livello di battaglione e di reggimento. I comandanti di
brigata erano personalmente coraggiosi, ma la loro cultura professionale era a
dir poco scarsa. Per non parlare della totale assenza di uno Stato Maggiore e
di vertici politico militari in concorrenza e in contrasto tra di loro. Ai
nostri 258.000 combattenti effettivi (250.000 del Regio esercito più 38.000
volontari garibaldini) su 565.000 uomini mobilitati con 462 cannoni si
opponevano 61.000 combattenti austriaci su 190.000 mobilitati e 152 cannoni,
con un rapporto a nostro favore di tre a uno, eppure non riuscimmo a vincere
sul campo. Non avevamo un piano, dividemmo le nostre forze tra il Mincio (12
divisioni) e il Po (8 divisioni), dividemmo il comando tra La Marmora e il
Cialdini ed infine il primo giorno di scontro ci demmo per vinti con ben 15
divisioni integre che non avevano preso parte neanche ad una scaramuccia e con
320.000 uomini di riserva. Alla “figuraccia” del nostro esercito i vertici
politico militari cercarono di rimediare sul fronte del mare, dove la nostra
flotta, potente “sulla carta e non sul mare”, regalò al Paese un’altra amara
sconfitta.
Arrivati a questo
punto non ci restò, il 3 settembre 1866, che firmare la pace che conservava
l’umiliante clausola della cessione del Veneto all’Italia attraverso la
consegna da parte della Francia di Napoleone III. L’imperatore d’Austria
Francesco Giuseppe riconobbe il Regno d’Italia, riconsegnò la “corona ferrea”
che gli Austriaci al termine della guerra del 1859 avevano portato a Vienna e
noi ci accollammo altri 91 milioni di debito pubblico del Veneto.
Questa nostra prima guerra in Italia fu una impresa
assolutamente deludente e generò durissime polemiche in tutto il Paese negli
anni successivi. I nostri vertici politico – militari a cominciare da Alfonso
Ferrero La Marmora e dal Cialdini furono impari al loro compito, non seppero
impostare e condurre con efficienza la guerra anche perché il governo italiano
preparò diplomaticamente la guerra con la speranza di non farla e con la
certezza di aver ottenuto il proprio premio ancora prima di iniziarla.
La brutta figura e la rabbia popolare crescente nel paese
imposero di trovare un colpevole e quindi, il 1 dicembre 1866, fu arrestato
l’ammiraglio Persano per essere giudicato dal Senato, costituito in Alta Corte
di giustizia, sulle sue responsabilità nella battaglia di Lissa, ma molti altri
avrebbero dovuto comparire con lui come chiaramente afferma Carlo Cattaneo in
una sua lettera inviata il 9 ottobre 1866 al senatore Giuseppe Muzio: “Ormai,
nella memoria della nazione e delle nazioni – e nella coscienza del soldato –
Custoza e Lissa sono parte d’un reato solo. Nessuno ha ormai forza di
sciogliere quel nodo. Il Senato è giudice unico e supremo dei colpevoli: può,
se vuole, assolver tutti, ma deve giudicare tutti. Anzi, se v’è reato, il suo
punto culminante è già Custoza. Lissa è il tardo e inutile strascico d’una
guerra morta. Se potè avere un proposito doloso, è solo in quanto fosse intesa
a ostentare, oltre ad un’impotenza militare del Regno, anche una impotenza
marittima. Solo la presenza d’un accordo segreto può spiegare un simulacro di
guerra di cui non v’ha forse esempio al mondo. Esser liberi d’ogni movimento,
anche nelle giurisdizioni federali germaniche del Tirolo e dell’Istria; avere a
fronte un nemico già umiliato e vacillante, ricinto, fin entro le sue montagne,
le sue fortezze e le sue navi, da tre milioni di popolo fremente; avere in
pugno più di 300.000 soldati; portarne al fuoco, per volontà premeditata,
nemmeno la quinta parte; e darsi vinti, come per “disastro irreparabile” è una
sì strana prova d’arte militare che non è lecito imputarla a nudo errore. Il
Senato non può esigere il rendiconto di Lissa senza esigere il rendiconto di
Custoza (…). A Lissa non si vede come a Custoza il proposito sofistico di
vincere senza vincere, non si vede l’umile accordo con lo straniero imperioso,
il vile accordo col burbero nemico, non si vede il traffico dell’onore col
guadagno, la guerra finta eppur sanguinosa che pone per sempre nel cuore del
soldato non la fiducia della vittoria, ma il ghiaccio del sospetto. E’ per
queste arti indegne che l’Italia aveva perduto a memoria nostra l’onore delle
armi” Centocinquant’anni dopo queste parole di Cattaneo, che colgono nel
segno tutto l’operato della guerra dell’’86 e che invitano al rinnovamento
morale e culturale del Paese per divenire uno Stato moderno, ci appaiono
terribilmente attuali nella nostra terra italica, nella terra dei “gattopardi”,
dove tutto sembra che cambi, ma dove non cambia mai nulla.
Giancarlo Ramaccia