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martedì 27 novembre 2018

Sassocorvaro e Pasquale Rotondi 1944.- 1945


Materiali per il Master di Storia Militare Contemporanea 1796  - 1960
La meritoria opera di Pasquale Rotondi
Sovrintende alle gallerie ed alle Opere d'Arte delle Marche
nel 1944-1945
per il salvataggio di inestimabili tesori d'arte.


L’Operazione Salvataggio

di Alessia Biasiolo*


Quando era diventato chiaro che una nuova guerra sarebbe scoppiata in Europa, molti si resero conto che le opere d’arte erano da mettere subito in salvo, sia per evitare che venissero distrutte da un conflitto, sia per evitare trafugamenti a scopo di ottenerne denaro; oppure, per evitare che cadessero in mano ai nazisti che avevano già condotto operazioni di epurazione dell’arte definita degenerata.
Nel 1939, il Ministero dell’Educazione Nazionale italiano, il cui ministro era Giuseppe Bottai, per idea del funzionario Giulio Carlo Argan, decise di identificare le opere d’arte da mettere in salvo e di incaricare il Soprintendente alle Gallerie e alle Opere d’Arte delle Marche, amico di Argan, Pasquale Rotondi, di occuparsene. Rotondi, dopo lunghe ricerche, scelse come luogo ideale dove ricoverare le opere, in provincia di Urbino, una rocca fortificata, la Rocca di Sassocorvaro nel Montefeltro. L’attività venne soprannominata Operazione Salvataggio.
Rotondi ottenne una Balilla, un camioncino e quattro uomini per costituire il suo manipolo di salvatori di opere d’arte, oltre al suo fidato autista Augusto Pretelli. Cominciò a selezionare le opere da mettere al sicuro, trasferendole in casse dove potessero essere protette anche durante il viaggio. Il gruppo imballò lavori di Tiziano, Piero della Francesca, Lorenzetto, Tintoretto, Rubens, Caravaggio, quella che venne denominata “la lista di Pasquale Rotondi”, detto lo Schindler delle opere d’arte italiane. Accanto alle tele, anche ceramiche del Museo di Pesaro, ad esempio, disegni, libri, spartiti musicali. L’attività divenne febbrile e un giorno, al Furlo, passando con il camion carico, videro che la gente si radunava davanti agli altoparlanti di una piazza: ascoltava l’annuncio di guerra da parte di Mussolini. Era la guerra, allora, nel 1940, anche per l’Italia.
L’Operazione doveva essere conclusa prima che anche il fronte arrivasse nel Belpaese. “L’armata Brancaleone” dei quadri doveva sbrigarsi.
L’11 giugno il manipolo trasferisce le opere da Ancona; il 26 giugno da Macerata, e avanti così, finché era possibile e finché di casse piene di opere ce ne stavano alla Rocca, malgrado il denaro fosse limitatissimo e con scarsi mezzi.
Tutta la popolazione di Sassocorvaro aiutò Rotondi in “un lavoro imponente”. Nessuno doveva sapere cosa contenevano le casse che arrivavano giorno e notte in paese. Giulio Montagna, uno dei ragazzi del posto, venne assoldato con gli amici per fare la guardia ad un camion carico di casse che non passava per l’ingresso della Rocca. Nei documenti Sassocorvaro non era mai citato con il suo nome per non indicare dove venivano mandate le opere d’arte. Si diceva solo di contattare il prof. Rotondi perché le opere venissero portate nel Ricovero, come veniva inteso nei messaggi.
Nell’agosto 1940 Sassocorvaro ospita già 77 casse e comincia a spargersi la voce tra gli addetti ai lavori della possibilità di mettere in salvo le preziose testimonianze di secoli.
Rodolfo Palucchini, Ispettore della Soprintendenza di Venezia, saputo della cosa, andò a visitare il Ricovero per fare in modo di mettere in salvo anche le opere di Venezia. Rimase stupito dell’organizzazione del Ricovero e così diede disposizione di mettere le opere selezionate in casse di legno, portate sulle gondole a piazza Venezia e quindi in camion a Sassocorvaro. Non senza rischi e problemi.
Il 16 ottobre 1940 arrivano 54 casse e 16 rulli con più di 100 opere, tra cui “La tempesta” del Giorgione, forse uno dei quadri più rari e suggestivi che possiede l’Italia. Si contano in tutto 34 rulli e 132 casse.
Nel 1941, comincia l’offensiva in Grecia e Iugoslavia, poi l’Operazione Barbarossa. Si teme sempre di più per il patrimonio artistico.
Rotondi, intanto, incomincia il controllo delle casse e delle opere ivi contenute, operazione che ripete spesso per controllare che non ci fossero danneggiamenti, muffe e altri pericoli per le delicate ospiti della Rocca, ma le opere sono tutte a posto.
Antonio Magi, abitante di Sassocorvaro, testimonia come il timore di quadri rovinati mettesse in ansia Rotondi. Le uniche persone che sapevano davvero cosa c’era nelle casse erano la moglie Zea e il fedele autista Augusto.
Quando Rotondi tornava tardi a casa a bordo della sua Balilla, si annunciava con tre squilli di campanello e un fischietto di famiglia per farsi riconoscere, dicendo alle sue bambine Paola e Giovanna di corrergli incontro. Chiudeva fuori casa il lavoro, per mantenere la serenità e apparentemente le occupazioni di routine, malgrado custodisse un segreto così grande.
Nel novembre 1942 cambiano le sorti della guerra con la resa italiana nel nord Africa; l’11 dicembre le truppe sovietiche cominciano la controffensiva e l’Armir si deve arrendere.
Tutti prendono contatto con Rotondi per salvare le opere dei propri musei, perché la vittoria nazifascista non è più così certa.
Il commendatore De Tomasi lo convoca a Roma per parlargli delle richieste di far pervenire a Sassocorvaro le opere, ma la Rocca era già piena, e così Rotondi dice di avere già individuato un altro ricovero nel palazzo dei Principi di Carpegna, a pochi chilometri da Sassocorvaro. Nella Sala Verde del Palazzo, il 15 febbraio 1943, avvenne il primo incontro tra l’incaricato dell’amministrazione dei principi e Pasquale Rotondi, come ricorderà Francesco Falconieri, principe di Carpegna, per trattare la disposizione delle opere nei loro locali. Tra aprile e giugno 1943 arrivano tanti lavori di Raffaello, Bramante, Masaccio, Mantegna, da Venezia, Milano, e altre città: nessuna assicurazione sarebbe stata in grado di valutare il valore di tutto quel patrimonio.
Dal Conservatorio di Pesaro vengono depositate due casse e un baule contenente manoscritti e cimeli di Rossini, collocati al piano superiore del palazzo.
Ad un certo punto del conflitto bellico Rotondi si è trovato custode di una massa di capolavori: 3.800 opere di pittura, scultura e arti minori, mentre 4.000 pezzi erano costituiti da materiale bibliografico e archivistico. Intensifica anche la sua attività di controllo perché ha paura dei furti e dello stato di conservazione delle opere, così come delle notizie sempre più preoccupanti che arrivano dal fronte. Fino a quando, il 10 luglio 1943, si realizza lo sbarco alleato in Sicilia. I custodi dei due ricoveri sono contenti perché pensano di potere andare a casa, ma Rotondi capisce che bisogna avere prudenza ancora. Cominciano infatti ad arrivare le truppe tedesche in Italia.
“Dopo l’8 settembre c’è stato un momento di grande smarrimento”, dirà Rotondi. “Avere la responsabilità della custodia di una quantità così notevole di grandi capolavori, ma non avere più qualcuno al quale potersi rivolgere nel caso di necessità” lo viveva con apprensione e scoramento, non sapendo bene che fare per proteggere e difendere le opere che gli erano state affidate.
A Urbino nessuno ha notizie certe. L’unica fonte affidabile era Radio Londra che Rotondi ascoltava regolarmente con le sue formule passate alla storia: “Felice non è felice”, “I cavalli scalpitano”, “La mia barba è bionda”, “La mucca non dà latte”. Frasi in codice per comunicare con i gruppi partigiani o con le truppe o con gli infiltrati nei territori nemici. Frasi che cercavano di mantenere alto il morale di chi ricominciava ad avere speranza di uscire dal buio delle dittature. In quel momento di confusione, un altro pericolo minaccia il patrimonio artistico italiano.
I tedeschi hanno fondato a Bergamo il Kunstschutz, un ufficio per la protezione delle opere d’arte; in realtà dietro la facciata di un’istituzione culturale si nasconde il progetto di trafugare in Germania quante più opere d’arte italiane, al comando di un colonnello delle SS. Per ordine di Himmler, su un’ambulanza, vengono trasferite in Germania per Hitler opere viste dal Führer a Firenze. Goering, invece, riceverà 16 casse da Montecassino per la sua collezione privata.
Fortunatamente, per una intuizione, Rotondi aveva tolto dalle casse tutte le etichette del contenuto, rendendo difficile capire di cosa si trattasse, se non costringendo le SS ad aprire cassa per cassa. A Carpegna, intanto, proprio le SS sono entrate nel palazzo per vedere se c’erano opere d’arte nascoste.
I carabinieri a guardia delle opere vengono disarmati e portati via.
Subito Rotondi tenta di mettersi in contatto con il comandante tedesco, minimizzando il valore delle casse e protestando per l’arresto dei carabinieri.
I nazisti si sono accaniti in particolare su una cassa che conteneva i manoscritti di Rossini. Una volta aperto il contenitore, vedendo le carte dissero, in tedesco “Cartaccia” e se ne sono andati. Accanto alla cassa di “cartaccia”, un’altra conteneva il tesoro di San Marco.
A quel punto, Rotondi capisce che le opere d’arte in sua responsabilità sono in pericolo. Va dal prefetto di Urbino per protestare per l’arresto dei carabinieri ed avere mezzi per trasportare le opere. Il prefetto non ha più autorità, tutto è nelle mani dei tedeschi. Non c’è più nessuno in alto, erano rimasti tutti senza una guida. Rotondi si sente perso e scoraggiato, solo.
I tedeschi non sono ancora arrivati alla Rocca, quindi Rotondi decide di giocare d’anticipo il tutto per tutto. In modo razionalmente folle.
Prende alcuni capolavori maggiori di piccole dimensioni, facilmente trasportabili, li mette nella Balilla in morbide coperte portate da Urbino. Lui e il fido autista, partono e vanno alle porte di Urbino dove c’erano molte pattuglie delle SS in cerca di mezzi e munizioni, come gli dice la moglie Zea che lo aspetta per avvisarlo. Ripiegano allora alla Tortorina, una piccola villa di proprietà nelle vicinanze di Urbino dove scaricano i capolavori e li nascondono nella sua camera da letto, dormendo con esse. Quello fu il momento in cui Rotondi ebbe davvero molta paura. Allo stesso tempo, l’emozione di avere in casa quei capolavori è forte: Pasquale e la moglie restano svegli per ore a contemplare i capolavori. “San Giorgio” di Mantegna, ad esempio. “La tempesta” stesso. Addirittura la moglie non si alza per un giorno intero dal letto per proteggere le tele e fare la guardia a “La Tempesta”.
Dopo qualche giorno le SS lasciano la zona e le opere vengono trasferite al palazzo di Urbino dove sono al sicuro. Nei ricoveri dalle spesse mura di un tempo, il rischio in caso di bombardamenti è ridotto rispetto che altrove, come pure alcuni siti non avrebbero dovuto essere presi di mira.
Il pericolo rimane per le altre opere sulle quali Rotondi non ha più titolo né per custodirle né per trasportarle.
Da Venezia gli arriva, tuttavia, un aiuto insperato. Gli scrive il patriarca di Venezia che sperava che il trasporto da Carpegna a Urbino non comportasse alcuna difficoltà trattandosi di un tragitto relativamente breve; in mancanza di mezzi l’alto prelato suggeriva di usare carri trainati da cavalli.
Non c’è però l’autorizzazione da parte dell’ufficiale tedesco della guarnigione, che manda subito un soldato a chiedere istruzioni al comando dal quale Carpegna dipende. Mentre attende la risposta è a rischio anche l’incolumità di Rotondi. La staffetta tedesca, dopo tre ore, torna con la risposta: possono trasportare le opere, ma solo quelle di proprietà della Chiesa.
Il contenuto delle casse è irriconoscibile, così Rotondi può trasferire a Urbino tutte le casse con le opere, operazione che il patriarca di Venezia ribattezzerà “Il miracolo di San Marco”.
Mancano ancora i mezzi di trasporto, ma finalmente trovano un camionista disponibile a trasportare le casse e il camion viene stipato di opere, non solo il tesoro di san Marco, ma anche casse con opere di Milano e Roma; con l’autorizzazione dei tedeschi, i salvatori di opere d’arte possono andare via da Carpegna, ma fanno una deviazione per Sassocorvaro per caricare la predella di Paolo Uccello e altre opere, finché ce ne stavano. La sera arrivano a Palazzo Ducale di Urbino, per mettere tutto al sicuro, anche se i bombardamenti continuano e sono sempre più probabili le razzie dei tedeschi che vogliono arricchire le collezioni private di Hitler e Goering. I nazisti diventano sempre più sfrontati, soprattutto se le opere sono di ebrei. Dopo la terribile battaglia di Cassino, che porta alla distruzione dell’abbazia, molte opere d’arte italiane prendono la via della Germania.
Alcuni funzionari del Ministero dell’Educazione che non hanno aderito alla RSI sono dimissionari, ma si impegnano lo stesso per salvare le opere, pensando che l’unico posto sicuro dove nasconderle sia il Vaticano. Giulio Carlo Argan va a sondare la disponibilità di Pio XII attraverso mons. Montini, il futuro papa Paolo VI, ora santo.
Secondo Bernardo D’Onorio, abate di Montecassino, la posizione del Vaticano per le opere d’arte è stata stimata da tutti, malgrado la delicata posizione politica di quei giorni.
Erano probabili anche vendette dei tedeschi, che potevano decidere, come in alcuni casi successe, di distruggere le tele con il lanciafiamme pur che non cadessero in mano nemica o che restassero alla traditrice Italia.
Rotondi continua la sua opera di salvataggio da Sassocorvaro verso Urbino, palazzo ducale e cattedrale.
Il 18 dicembre 1943 trova a Urbino un telegramma del Ministero che lo invita a dare le opere al funzionario Emilio Lavagnino che le trasferirà in Vaticano: sarebbe arrivato con camion e scorta armata quella sera stessa, ma sono già le 22 e non c’era ancora nessuno.
L’indomani arrivarono. Lavagnino era ispettore centrale del Ministero, suo amico, accompagnato da Nicoletti, sempre del Ministero, da un gruppo di facchini e da un sottufficiale delle SS, il tenente Schalbert.
Rotondi è determinato: il tenente non dovrà ricevere niente, nemmeno sul verbale di consegna dovrà comparire il nome del tedesco!
La sua presenza sarebbe stata utile qualora durante il viaggio ci fossero state problematiche di ragione militare. La moglie di Rotondi fa ubriacare il milite
che l’indomani dimostra di essere consapevole dell’accaduto, tanto che li poteva fare fucilare, ma non ha approfondito e li ha lasciati stare. Il tenente sembrava un buon uomo, anche se tracotante come tutti i tedeschi.
Il viaggio è andato benissimo: il 23 dicembre gran parte delle opere sono al sicuro dentro il Vaticano. Il fronte avanza. Rotondi si mette all’opera per salvare il patrimonio artistico locale, ricominciando daccapo l’operazione di salvataggio. Andrea Emiliani, storico dell’Arte, ricorda i metri di neve di quell’anno, l’inverno freddissimo del 1944. Ancora con Augusto Pretelli e la Balilla Rotondi va in cerca di opere. Nell’aprile tutto il Montefeltro è in mano ai tedeschi e chiunque può essere arrestato. Anche Rotondi, perché il carabiniere, leggendo polittico di Crivelli durante un controllo, pensava a politico e lo ha arrestato per alcune ore, sospettando viaggiasse per motivi politici. Tutto viene portato alla Rocca ancora: 127 casse, 8 rulli, 1 baule e 3000 volumi. Sorte diversa al Museo Archeologico di Ancona distrutto dalle bombe alleate che erano destinate al porto. Pochi giorni prima Rotondi aveva detto al sovrintendente che avrebbe portato in salvo le opere, ma quegli non volle.
Furiosi combattimenti si ebbero anche intorno a Sassocorvaro, ma le mura della Rocca ressero, come Rotondi aveva previsto.
Le truppe alleate entrano a Urbino il 9 settembre 1944 e liberano anche Sassocorvaro, borgo e Rocca. Nei mesi successivi il professore continua tranquillamente a controllare le opere da lui salvate fino alla fine della guerra. Nessuna opera ha subito danni. Infine, consegna ufficialmente al Comune di Sassocorvaro la Rocca e il suo prezioso contenuto, in grande tristezza, ma anche con sollievo.
Solo il sindaco di Sassocorvaro Oriano Giacomi, sindaco dal 1980-1988, ha scoperto la storia di Rotondi. Lo cercò dappertutto, fino a trovarlo in Vaticano nel 1983, verso la Cappella Sistina. Rotondi gli disse che era ora che qualcuno si ricordasse di quella storia, per la quale ricevette, nel 1986, la cittadinanza onoraria di Sassocorvaro e il Comune, nel 1997, ha istituito il “Premio Pasquale Rotondi” per chi si distingue nello salvare opere d’arte.
Dopo la guerra Rotondi divenne sovrintendente alle Belle Arti di Urbino, poi di Genova, mentre continua l’attività accademia. Dal 1961 è direttore dell’Istituto Centrale del Restauro e dal 1973 diventa consulente del Vaticano per il restauro della Cappella Sistina.
Muore nel 1991 a Roma investito da una motocicletta. Nel 2005 venne conferita alle figlie la Medaglia d’Oro al Merito Civile, in memoria del padre.


* Collegio degli Scrittori della rivista "Quaderni" del Nastro Azzurro
abiasiolo@tin.it


giovedì 1 novembre 2018

CUM Club Ufficiali Marchigiani. Nota a margine


STORIA MILITARE DELLE MARCHE


collegato a questo blog per la storia risorgimentale nelle Marche
vi è il blog
www.coltrinaricastelfidardo 1860.blogspot.com
che tratta degli avvenimenti nella regione dal
del 1860,
ovvero del passaggio delle Marche dallo Stato



per la storia della seconda guerra mondiale, ovvero il passaggio del fronte
durante la campagna d'Italia che interessò le Marche dal giugno al settembre 1944
vi è il blog
www.coltrinarimarche1944.blogspot.com

che tratta degli avvenimenti nella regione, in particolare le operazioni
del Corpo Italiano di liberazione, La battaglia di Filottrano la presa di Ancona, e le successive operazioni, e il fronte interno.


le foto si riferiscono a movimenti di truppe polacche alla Croce di San Vincenzo, Polverigi Ancona
il 18 luglio 1944, nell'azione che portò alla conquista della città dorica a seguito
della manovra per avvolgimento della 3a Divisione

Nella fotografia sotto,  mezzi corazzati polacchi in movimento sulla strada
Agugliano - Castel'Emilio Cassero falconara sempre il 18 luglio 1944
sullo sfondo il profilo del paese di Agugliano


informazioni ed approfondimenti
centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org


cliccando sopra le foto nelle colonne laterali si è inviati
ai blog collegati

lunedì 29 ottobre 2018

1866. III Guerra di Indipendenza. Uno Studio


STORIA MILITARE NELLE MARCHE
Il Club Ufficiali Marchigiani promuove studi e ricerche, 
attraverso il suo Comitato Scientifico,
su fatti e eventi militari nelle Marche.
Qui viene in particolare studiata la Battaglia di Lissa, che vie
la piazzaforte di Ancona come base della Flotta Italiana


Capitano di Fregata Faa di Bruno 


Giancarlo Ramaccia
Presentazione al volume
1866. Quattro Battaglie per il Veneto. la III Guerra di Indipendenza ed il Valore MIlitare


Il 20 giugno 1866 fu consegnata all’arciduca Alberto d’Asburgo, comandante supremo delle forze austriache dislocate in Italia, la dichiarazione di guerra del Regno d’Italia, che fissava al giorno 23 del medesimo mese l’inizio delle ostilità. Come al solito entrammo in guerra con tre giorni di ritardo dalla dichiarazione e sei giorni dall’inizio delle ostilità rispetto a quanto precedentemente pattuito con il nostro alleato prussiano. Tale ritardo non poteva che irritare notevolmente e aumentare la diffidenza dei vertici politico-militari di Berlino, che già di loro dubitavano delle buone intenzioni dei vertici del giovane Regno d’Italia.
In ogni caso la dichiarazione di guerra, presentata all’impero austro-ungarico, fu accolta nel paese con grandi manifestazioni di consenso, accese grandi aspettative nella popolazione e produsse una straordinaria eccitazione patriottica, come ben documenta, nel suo diario, Sidney Sonnino, allora giovane ed entusiasta patriota toscano: “Gran giorno per l’Italia! Per la prima volta in tutta la sua storia essa si solleva tutta a rivendicare sola il suo diritto! Mai, mai si è visto un fatto simile. Felici noi che vi assistiamo![1].  Per il Sonnino, come per molti se non per tutti, la nuova guerra sarebbe stata breve e vittoriosa. In nessun caso si valutarono le conseguenze di una possibile sconfitta. Dopo le non brillanti vicende militari degli anni precedenti, come la guerra del 1848/49, il buon senso  avrebbe dovuto suggerire una valutazione “più cauta” da parte dei vertici politico-militari italiani. Invece, l’essere sconfitti risultava impensabile e inaccettabile da tutti gli appartenenti al nostro ceto dirigente, anche perché le conseguenze politiche erano troppo spaventose da sostenere per il giovane e debole Stato unitario. Poi gli Austriaci non combattevano su due fronti? Il nuovo esercito italiano contava ora ben venti divisioni e non più le cinque piccole divisioni del Regno di Sardegna della guerra precedente. La nostra flotta era il doppio di quella austriaca e con un numero  maggiore di corazzate, dodici contro le sette austriache, quindi sulla carta e solo sulla carta il Regno d’Italia aveva tutti i numeri e il diritto di aspettarsi una vittoria. Anche per questo motivo ciò che avvenne nelle settimane successive fu traumatico e profondamente doloroso per tutto il Paese.
Per comprendere al meglio la situazione si deve ampliare il quadro alle vicende politiche degli anni precedenti e agli enormi problemi che il giovane Stato dovette affrontare. Ben cinque furono le questioni principali e tutte intrecciate tra loro, ossia: il brigantaggio in larga parte del Paese; la crisi economica; la morte del Conte di Cavour; la questione romana e la conseguente crisi dei rapporti con la Francia, in particolar modo con l’imperatore Napoleone III; la costruzione del nuovo Esercito unitario. Tralasciamo le questioni minori ma che minori, per il giovane nascente Stato unitario, non furono.
Il 15 febbraio 1861 il Re delle Due Sicilie Francesco II di Borbone, proclama la resa della fortezza di Gaeta dove si era rifugiato dopo le sconfitte subite ad opera dell’armata garibaldina e il successivo intervento sabaudo, imbarcandosi, dopo una lunga trattativa diplomatica, su una nave francese che lo porterà a Roma dove rimarrà in esilio, ospite di Papa Pio IX. Solo dopo il gen. Cialdini potrà occupare la cittadina laziale che ha assediato e bombardato per ben 102 giorni. Successivamente anche le guarnigioni borboniche della cittadella di Messina e quella di Civitella del Tronto (Ascoli Piceno) si arrenderanno definitivamente, ma nuclei rimasti fedeli a Francesco II continueranno a combattere unendosi a bande di contadini poveri e briganti, dando vita a una lunga guerriglia a cui si darà il nome di “brigantaggio”.
Questa insorgenza sociale era frutto di povertà endemica, di patti agrari esosissimi, di nuovi inasprimenti fiscali, di una nuova ed errata leva obbligatoria che provocò una disperata guerriglia dei contadini contro i proprietari terrieri e il nuovo governo “piemontese” che fu abilmente sfruttata politicamente da chi desiderava restaurare il Regno delle Due Sicilie. La rivolta armata scoppiò nell’aprile del 1861 in Basilicata e si estese a quasi tutto il meridione continentale.
Il nascente Regno d’Italia provò inizialmente a mediare politicamente con i legittimisti borbonici, nel tentativo di contenere il fenomeno, poi diede seguito ad una feroce e indiscriminata repressione. Migliaia di insorti, alzando le bandiere bianche borboniche, occuparono province e paesi, trucidando cittadini comuni, guardie nazionali e scontrandosi con i soldati italiani. La risposta fu durissima da parte dello Stato unitario: fucilazioni indiscriminate e senza alcun processo, interi paesi bombardati e incendiati, deportazioni di massa; tutto ciò accrebbe l’ostilità della popolazione meridionale nei confronti del nuovo Regno, di “quello dei piemontesi”. Se i soldati impiegati nel meridione furono non più di 50.000 nel 1861, solo tre anni dopo se ne impiegarono 120.000, ossia circa il 50% delle forze armate dello Stato. Esse svolsero prevalentemente compiti di ordine pubblico e di polizia, tralasciando l’addestramento e la preparazione militare, per dedicarsi, a tempo pieno, a combattere e reprimere questa vera e propria guerra civile. I dati ufficiali ci dicono che tra il 1861 e il 1865 (un anno prima dell’inizio della terza guerra di indipendenza) furono uccisi in combattimento o fucilati 5.212 “cosiddetti briganti” e altri 5.000  furono arrestati e carcerati, ma i dati ufficiosi parlano e raccontano un’altra verità, ossia di ben 15.000 o 20.000 uomini eliminati. Ciò produsse una lacerazione nel tessuto politico e sociale di cui a tutt’oggi ne riscontriamo le conseguenze. A questo gravissimo problema si aggiunse, per il nuovo Stato – che si era costituito a Torino il 18 marzo 1861 con la proclamazione da parte del primo parlamento italiano del Regno d’Italia – una serie di gravissimi problemi finanziari.
Essi erano il frutto dei costi per l’unificazione nazionale che comprendevano le spese sostenute per le guerre di unificazione con l’aggiunta del consolidamento dei debiti ereditati dai periodi precedenti e dovuti ai sette Stati pre unitari e alle ben nove amministrazioni finanziarie che avevano sistemi monetari diversi, diversi modi di contabilizzare oltre a diversi criteri di imposizione fiscale e di riscossione delle imposte. Sommando tutti questi costi risultò, per il nuovo Stato, un debito pubblico esorbitante, ossia 111.500.000 lire. A questa enormità si dovette far fronte con soluzioni che risultarono non risolutive ed efficaci, anzi aggravarono ulteriormente la già difficile situazione economica.
Allo scoppio della guerra dell’ottantasei questo problema parve addirittura insormontabile, con le entrate effettive dello Stato che coprivano appena i due terzi delle uscite e con una sicura prospettiva di incremento, dovuta alle nuove spese che si dovevano sostenere per la nuova guerra. All’enorme disavanzo si provvedeva con l’emissione di nuovi titoli di debito a copertura dei prestiti esteri, proprio nel momento in cui una crisi economica gravissima si abbatteva sui mercati borsistici europei (Borsa di Londra e Parigi) dovuta in gran parte agli enormi prestiti americani per la guerra di secessione e al pagamento delle grandi quantità di cotone importate dall’India, tra il 1861 e il 1865, per il fermo di produzione del mercato americano. Inoltre il clima di conflitto che si respirava in tutte le cancellerie d’Europa creava la giusta miscela per la caduta delle quotazioni dei titoli nelle principali Borse europee.
Il 6 giugno 1861 il nuovo Regno d’Italia perse il suo principale artefice, dopo una brevissima malattia, muore a Torino, improvvisamente, il presidente del Consiglio dei Ministri Camillo Benso conte di Cavour. Egli era lo stratega, il politico più grande che il nostro Stato unitario abbia mai avuto, perché pur lasciando alla sua morte fedeli sostenitori del progetto di unificazione del Paese, non lasciò un vero e proprio erede, nessuno dei suoi seguaci era in grado di elaborare una strategia per il completamento dell’unione territoriale e costruire un nuovo Stato alla base di una comunità ampliata e solidale. Si dà inizio ai governi “brevi” (ben sei ministeri si succedettero dal 1861 al 1866), a governi che “navigano a vista” con politiche miopi e di breve durata, incapaci di elaborare e perseguire una strategia di lungo periodo.
Cavour, invece, nei mesi precedenti alla malattia, aveva cercato di definire nei confronti della questione romana una netta posizione governativa. In due discorsi alla Camera, sostenne che solo Roma poteva ricoprire il ruolo di capitale d’Italia e che era necessario procedere alla sua liberazione per unire e cementare le diverse popolazioni italiche, ma che ciò doveva avvenire con “l’accordo” della Francia e senza mai intaccare la libertà spirituale e l’indipendenza del sommo pontefice. In cambio della cessione del potere temporale, al pontefice verrebbe corrisposta una cospicua rendita annua. Era questo il modo di recuperare i rapporti diplomatici con la Francia e in particolar modo quelli con l’imperatore Napoleone III, dopo le tensioni dovute all’assedio di Gaeta.
In linea con questa impostazione, il suo successore al governo Bettino Ricasoli redige un progetto di conciliazione che invia rispettivamente alla Cancelleria francese e a quella dello Stato pontificio; ma tale progetto ottiene un netto rifiuto francese ad aprire una qualsiasi trattativa su quella base.
Nel 1862 a seguito di una delle tante riconciliazioni tra Garibaldi e Mazzini e con l’appoggio dell’Associazione Emancipatrice Italiana si progetta una spedizione di volontari a Roma e subito alcuni ufficiali garibaldini cominciano a raccogliere i volontari. Nel mese di giugno Giuseppe Garibaldi si reca come privato cittadino in Sicilia ed è accolto da grandi manifestazioni popolari e affermando la necessità di una spedizione armata per liberare Roma pone la condizione di trovare un accordo con il re Vittorio Emanuele II. A Marsala promuove il giuramento “o  Roma o morte” e subito l’Associazione Emancipatrice Italiana fa sua la parola d’ordine e aderisce al giuramento. Alcune settimane dopo, trasferitosi a Palermo, Garibaldi organizza la legione romana e annuncia di muovere contro lo Stato pontificio al grido di “Italia e Vittorio Emanuele, o Roma o morte”. Una grave crisi si profila all’orizzonte con la Francia, ostile e pronta all’intervento in difesa dello Stato pontificio.
Al governo italiano non resta che decretare (20 agosto) lo stato d’assedio nelle province napoletane e inviare truppe regolari dell’esercito, al comando del colonnello Pallavicini di Priola, per bloccare la spedizione. Durante un breve conflitto sull’Aspromonte, nient’altro che una scaramuccia, Garibaldi, che era al comando di 1.300 volontari, viene ferito al piede e si arrende, venendo posto agli arresti. Al diffondersi della notizia, che provoca una grande emozione non solo in Italia e violente manifestazioni antigovernative, il Rattazzi cerca senza riuscirci di forzare i tempi di una soluzione diplomatica e infine il 20 novembre 1862 si rassegna e presenta le sue dimissioni dal ministero. I rapporti con la Francia diventano di nuovo gelidi. Segue un lungo lavorio diplomatico per ricostruire i rapporti che permetteranno di stipulare un trattato di libero scambio (17 gennaio 1863) tra i due paesi e nell’anno successivo di gettare le basi di un accordo sulla questione romana. Gioacchino Pepoli, inviato dal nuovo governo presieduto da Marco Minghetti, avanza l’idea di trasferire la capitale d’Italia da Torino ad un’altra città, come segnale dell’abbandono del progetto di fare Roma capitale d’Italia e in cambio chiede alla Francia di procedere al ritiro graduale delle sue truppe di stanza nello Stato pontificio. L’accordo verrà raggiunto ed a Parigi, nell’agosto del medesimo anno, si procederà alla firma “della convenzione di settembre” (15 settembre 1864), che prevedeva il ritiro delle truppe francesi da Roma nell’arco dei successivi due anni, per dare il tempo al governo papale di costituire un suo esercito. In cambio il Regno d’Italia si impegna a rispettare l’integrità dello Stato pontificio. E’ questo un incredibile gioco delle parti, dove tutto è ambiguo, infatti i francesi interpretano l’accordo come una rinuncia definitiva da parte italiana del progetto di Roma capitale, mentre per noi Italiani è null’altro che il primo passo verso la soluzione delle controversie con la Francia e un avvicinamento a Roma. Solo Pio IX esprime delusione e manifesta nuove paure.

Sul versante internazionale ferve la controversia tra la Prussia e l’Austria sulla sorte dei ducati dell’Holstein, dello Schleswig e del Lauenburg di proprietà personale del re di Danimarca e che le due potenze hanno occupato. Entra nel vivo il conflitto, per molti anni latente tra la Prussia e l’Austria, per il primato e l’egemonia sulla Confederazione degli Stati tedeschi.

Otto von Bismarck, presidente del Consiglio prussiano, che già nel 1862 aveva sondato il ministro italiano a Berlino, De Launay sulla possibilità di una alleanza italo-prussiana, incarica il suo ministro a Firenze Conte Usedom di sondare il capo del governo Alfonso Ferrero La Marmora in relazione a quale atteggiamento avrebbe assunto il suo governo nel caso di una probabile guerra tra la Prussia e l’Austria. La Marmora risponde che non può prendere nessun impegno senza prima conoscere quale atteggiamento sarebbe stato a sua volta preso dalla Francia in merito a tale questione. Per questo motivo incarica il ministro italiano a Parigi, Costantino Nigra, di sondare sulla questione il ministro degli Esteri francese Drouyn de Lhuys, il quale suggerì “prudenza e di attendere gli eventi”. Bismarck, insoddisfatto della risposta italiana e soprattutto dell’atteggiamento ambiguo dell’Imperatore francese Napoleone III decise, provvisoriamente, di stipulare la Convenzione di Gestein con l’Austria, conservando quindi per la Prussia l’amministrazione del ducato dello Schleswig e lasciando all’Austria il ducato dell’Holstein. Successivamente all’incontro di Biarritz, tra Napoleone III e Bismarck, dei primi di ottobre del 1865, Bismarck rassicurato riprese la politica che mirava ad arrivare alla guerra e ad unificare la nazione tedesca con l’esclusione dell’Austria. Probabilmente in questo incontro Napoleone III sperò di ottenere un ingrandimento territoriale della Francia sul Reno e sul Belgio, promettendo di mantenere la neutralità nel conflitto tra Prussia e Austria, mentre Bismarck chiese a sua volta l’intervento dell’Italia nel prossimo conflitto, che mirava a conquistare il Veneto (già promesso da Napoleone III) dal 1859 e poter attaccare su due fronti l’Austria, come era stato progettato nel Consiglio della corona prussiana del 29 maggio 1865. A questo accordo verbale fece seguito da parte di La Marmora  un tentativo di trattativa diretta con l’Austria per ottenere la cessione del Veneto, contando molto sulla minaccia di una  guerra sui due fronti per ammorbidire l’intransigenza austriaca. Nell’ottobre del 1865 incaricò un suo rappresentante personale, il conte reggiano, Alessandro Malaguzzi – Valeri, che aveva autorevoli amici e parenti a Vienna, di intraprendere una trattativa segreta con il conte Belcredi, presidente del Consiglio austriaco, per la cessione del Veneto a fronte di una indennità versata dall’Italia di un miliardo di lire. Pur riscontrando da parte del governo austriaco un interesse favorevole alla proposta, la dura opposizione dell’imperatore Francesco Giuseppe e della sua corte fece fallire la trattativa. Non restava altro che seguire i consigli francesi che invitavano ad orientarsi verso la politica antiaustriaca di Bismarck.

Il 31 dicembre 1865, Alfonso Ferrero La Marmora costituisce il suo secondo ministero, dopo una lunga e difficile crisi di governo nata dalla sfiducia votata dal Parlamento in relazione al decreto legge relativo al servizio di tesoreria statale da affidarsi alla Banca Nazionale. Provvedimento economico che avrebbe aggravato ulteriormente la crisi di debito del Regno d’Italia. Oltre alla presidenza del Consiglio mantenne per sé il ministero degli Esteri e chiamò al ministero della Guerra il generale Ignazio di Pettinengo e ai Lavori pubblici Stefano Jacini che fu il suo più ascoltato consigliere nella fase preparatoria della guerra.
Nel frattempo i rapporti austro-prussiani si fecero sempre più tesi e aumentarono le probabilità della guerra. A seguito della decisione presa dal Consiglio dei Ministri prussiano del 28 febbraio 1866, Bismarck chiese a La Marmora di inviare a Berlino un alto ufficiale per trattare un’alleanza militare. La Marmora scelse di inviare il generale Govone con l’incarico di verificare la preparazione militare prussiana, che nell’occupazione dei ducati non aveva particolarmente brillato per preparazione militare e di restare sul vago sulle questioni diplomatiche. Anche perché il suo invio era stato sollecitato al governo italiano da parte di Napoleone III che mirava ad una alleanza tra Italia e Prussia. Napoleone III in questa complicata partita, dalla quale sperava di acquisire per la Francia ingrandimenti territoriali, con il consenso della Confederazione germanica usava l’Italia come una pedina da muovere a suo piacimento sullo scacchiere politico continentale. Egli voleva che l’Italia ottenesse il Veneto ma senza una guerra o con una guerra non seriamente combattuta in modo tale che il merito fosse suo e della Francia; in questo modo mirava ad esercitare sul giovane Regno d’Italia un semi protettorato. Per lui l’Italia unita doveva diventare una potenza di rango inferiore, strettamente legata agli interessi politico economici francesi. L’8 aprile 1866 a Berlino, l’Italia firma un trattato segreto di alleanza con la Prussia, un trattato a “tempo determinato” valido per soli 3 mesi a partire dalla data della firma apposta per noi dal generale Govone e dal ministro a Berlino conte Barral. Era questa una alleanza “offensiva-difensiva” in cui l’Italia si impegnava a dichiarare guerra all’Austria appena la Prussia avesse iniziato le ostilità; ognuno dei due Stati si impegnò a non concludere armistizio o pace senza il consenso dell’altra, fino a quando l’Austria non avesse accettato di cedere il Veneto e la provincia di Mantova all’Italia e alla Prussia territori equivalenti per popolazione.

Il trattato era squilibrato ed a favore della Prussia, non veniva menzionato il Trentino, per un netto rifiuto di Bismark che lo considerava parte integrante dell’Impero Austro-ungarico, anche se verbalmente e in privato, garantiva che avrebbe appoggiato tale richiesta una volta giunti al tavolo della pace e solo se durante la guerra l’Italia fosse riuscita ad impadronirsi del territorio. Il trattato era alquanto umiliante per l’Italia per la sua unilateralità, infatti la Prussia non assumeva nessun impegno nei confronti dell’Italia. Inoltre un madornale errore di valutazione di La Marmora complicò la situazione, egli rifiutò la proposta avanzata dal generale Govone di allegare al trattato una convenzione militare, che avrebbe permesso di conoscere in precedenza i piani prussiani e quindi di coordinare i propri impegni sulla effettiva condotta della guerra. Ciò generò ulteriore diffidenza da parte prussiana sulla reale volontà italiana di condurre la guerra con impegno ed energia. Era impensabile per i nostri governanti una politica diversa perché troppo esposti politicamente e finanziariamente con l’ambigua politica di Bonaparte.

Il 3 maggio 1866 il governo prussiano iniziò la mobilitazione e a seguito di ciò il 5 maggio il governo austriaco fece sapere a Parigi di essere disposto a cedere il Veneto a Napoleone III, affinché tramite lui fosse ceduto all’Italia a patto che l’Italia rompesse l’alleanza con la Prussia e si dichiarasse neutrale. La Marmora, colto di sorpresa dall’offerta austriaca, rifiutò cercando al tempo stesso di guadagnare tempo e proponendo un congresso internazionale con le principali potenze del Continente per definire la controversia tra Italia-Prussia-Austria. Questa proposta sfumò definitivamente alcune settimane dopo quando una nota austriaca (1 giugno) dichiarò di essere pronta a partecipare al congresso a patto che fossero esclusi dalle risoluzioni finali modifiche e ingrandimenti territoriali. Il 12 giugno avveniva la rottura definitiva delle relazioni diplomatiche tra Berlino e Vienna e nello stesso giorno, sempre a Vienna, veniva firmato un accordo tra l’Austria e la Francia, in base alla quale la Francia si impegnava a rimanere neutrale nel conflitto che opponeva l’Austria alla Prussia; Napoleone III si impegnava a sua volta a fare il possibile perché l’Italia restasse neutrale o conducesse la “guerra senza impegno” e l’Austria a sua volta si impegnava a cedere il Veneto a Napoleone III al quale garantiva ulteriori compensi territoriali nel caso di vittoria da parte sua e con modificazioni territoriali in Germania. Infine Napoleone III si impegnava a sua volta a cedere il Veneto all’Italia in cambio di una indennità all’Austria e del riconoscimento da parte italiana del potere temporale dei papi. Il giorno stesso della firma, Napoleone III convocò il ministro italiano a Parigi, Costantino Nigra, e nel colloquio che seguì informò ufficialmente di quanto sottoscritto a Vienna e chiese a Nigra che “l’Italia non facesse guerra con troppo vigore”.

Otto giorni prima della dichiarazione di guerra all’Austria, per noi la guerra era già vinta. A questo punto il 17 giugno (giorno della dichiarazione di guerra della Prussia all’Austria) Alfonso Ferrero La Marmora si dimette da presidente del consiglio restando in ogni caso ministro senza portafoglio e assume il comando dello Stato maggiore raggiungendo il Re al fronte. Al suo posto di Presidente del Consiglio subentra Bettino Ricasoli che ad interim assume anche il ministero degli esteri e quello dell’interno.
Inizia la Terza Guerra d’Indipendenza e dà vita alle sue battaglie che si ricostruisce con perizia e nel dettaglio, ispirandosi alla perizia e alla precisione propria dello storico militare e del militare di carriera, più precisamente dell’ufficiale in servizio di Stato Maggiore fedele ai principi e alla filosofia di chi ideò e progettò tale servizio; ossia uno dei massimi protagonisti di questa guerra il generale Helmuth Karl Bernhard von Moltke Capo di Stato Maggiore dell’Esercito prussiano nella guerra dell’1866.
Ogni guerra ha caratteristiche sue proprie e differisce dalle precedenti, questa ha caratteri suoi peculiari; è la prima del giovane Regno d’Italia; la forza italiana è quadruplicata in confronto a quella del Regno di Sardegna, 20 divisioni contro 5; la Cavalleria, anche se pesante, muove 100 squadroni e solo l’artiglieria è poco numerosa, anche se di maggior calibro il che la rende meno mobile. La deficienza maggiore, per il nostro esercito riguardava il “quadro ufficiali” fortemente eterogeneo (ciò era dovuto all’assorbimento nell’esercito sardo dei quadri di diversa provenienza: borbonica, toscana, dello Stato Pontificio e dell’armata garibaldina) e di diversa preparazione e capacità militare. In modo particolare mancavano comandanti capaci a livello di battaglione e di reggimento. I comandanti di brigata erano personalmente coraggiosi, ma la loro cultura professionale era a dir poco scarsa. Per non parlare della totale assenza di uno Stato Maggiore e di vertici politico militari in concorrenza e in contrasto tra di loro. Ai nostri 258.000 combattenti effettivi (250.000 del Regio esercito più 38.000 volontari garibaldini) su 565.000 uomini mobilitati con 462 cannoni si opponevano 61.000 combattenti austriaci su 190.000 mobilitati e 152 cannoni, con un rapporto a nostro favore di tre a uno, eppure non riuscimmo a vincere sul campo. Non avevamo un piano, dividemmo le nostre forze tra il Mincio (12 divisioni) e il Po (8 divisioni), dividemmo il comando tra La Marmora e il Cialdini ed infine il primo giorno di scontro ci demmo per vinti con ben 15 divisioni integre che non avevano preso parte neanche ad una scaramuccia e con 320.000 uomini di riserva. Alla “figuraccia” del nostro esercito i vertici politico militari cercarono di rimediare sul fronte del mare, dove la nostra flotta, potente “sulla carta e non sul mare”, regalò al Paese un’altra amara sconfitta.
 Arrivati a questo punto non ci restò, il 3 settembre 1866, che firmare la pace che conservava l’umiliante clausola della cessione del Veneto all’Italia attraverso la consegna da parte della Francia di Napoleone III. L’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe riconobbe il Regno d’Italia, riconsegnò la “corona ferrea” che gli Austriaci al termine della guerra del 1859 avevano portato a Vienna e noi ci accollammo altri 91 milioni di debito pubblico del Veneto.
Questa nostra prima guerra in Italia fu una impresa assolutamente deludente e generò durissime polemiche in tutto il Paese negli anni successivi. I nostri vertici politico – militari a cominciare da Alfonso Ferrero La Marmora e dal Cialdini furono impari al loro compito, non seppero impostare e condurre con efficienza la guerra anche perché il governo italiano preparò diplomaticamente la guerra con la speranza di non farla e con la certezza di aver ottenuto il proprio premio ancora prima di iniziarla.

La brutta figura e la rabbia popolare crescente nel paese imposero di trovare un colpevole e quindi, il 1 dicembre 1866, fu arrestato l’ammiraglio Persano per essere giudicato dal Senato, costituito in Alta Corte di giustizia, sulle sue responsabilità nella battaglia di Lissa, ma molti altri avrebbero dovuto comparire con lui come chiaramente afferma Carlo Cattaneo in una sua lettera inviata il 9 ottobre 1866 al senatore Giuseppe Muzio:  Ormai, nella memoria della nazione e delle nazioni – e nella coscienza del soldato – Custoza e Lissa sono parte d’un reato solo. Nessuno ha ormai forza di sciogliere quel nodo. Il Senato è giudice unico e supremo dei colpevoli: può, se vuole, assolver tutti, ma deve giudicare tutti. Anzi, se v’è reato, il suo punto culminante è già Custoza. Lissa è il tardo e inutile strascico d’una guerra morta. Se potè avere un proposito doloso, è solo in quanto fosse intesa a ostentare, oltre ad un’impotenza militare del Regno, anche una impotenza marittima. Solo la presenza d’un accordo segreto può spiegare un simulacro di guerra di cui non v’ha forse esempio al mondo. Esser liberi d’ogni movimento, anche nelle giurisdizioni federali germaniche del Tirolo e dell’Istria; avere a fronte un nemico già umiliato e vacillante, ricinto, fin entro le sue montagne, le sue fortezze e le sue navi, da tre milioni di popolo fremente; avere in pugno più di 300.000 soldati; portarne al fuoco, per volontà premeditata, nemmeno la quinta parte; e darsi vinti, come per “disastro irreparabile” è una sì strana prova d’arte militare che non è lecito imputarla a nudo errore. Il Senato non può esigere il rendiconto di Lissa senza esigere il rendiconto di Custoza (…). A Lissa non si vede come a Custoza il proposito sofistico di vincere senza vincere, non si vede l’umile accordo con lo straniero imperioso, il vile accordo col burbero nemico, non si vede il traffico dell’onore col guadagno, la guerra finta eppur sanguinosa che pone per sempre nel cuore del soldato non la fiducia della vittoria, ma il ghiaccio del sospetto. E’ per queste arti indegne che l’Italia aveva perduto a memoria nostra l’onore delle armi” Centocinquant’anni dopo queste parole di Cattaneo, che colgono nel segno tutto l’operato della guerra dell’’86 e che invitano al rinnovamento morale e culturale del Paese per divenire uno Stato moderno, ci appaiono terribilmente attuali nella nostra terra italica, nella terra dei “gattopardi”, dove tutto sembra che cambi, ma dove non cambia mai nulla.
Giancarlo Ramaccia


[1] Sonnino S., Diario 1866-1912, Bari, Laterza, 1972, vol. I, pag.43


mercoledì 30 maggio 2018

1860. Difesa dello Stato Pontificio,


      Quando uno Stato rinuncia alle sue Forze Armate e si affida alla protezione di altri Stati o ad Alleanze, è destinato a subire le decisioni altrui.  Si presentano alcune note sullo Stato Pontificio nel 1860 a indicazione e studio.
       La Riflessione parte dalla constazione che oggi l'Italia è nella Nato, che la Superpotenza USA ha deciso di trasferire il centro dei suoi interessi in Asia.
(www.coltrinariatlantegeostrategico.blogspot.com e blog collegati)



1. Una serie di errori imperdonabili

La difesa di Ancona, seconda piazzaforte dello Stato e la città più viva ed attiva, dopo Roma, di tutte le provincie pontificie, fu l’ultimo atto della volontà di arrestare il progressivo sgretolamento della integrità territoriale iniziata l’anno precedente con la perdita di Bologna e delle Legazioni.
Ancona fu definitivamente persa, perché la Diplomazia, in particolare, e il Governo Pontificio, in generale, non compresero e non penetrarono nella loro esatta realtà e consistenza l’atteggiamento e gli interessi delle Grandi Potenze, in particolare quelli dell’Austria e, soprattutto, della Francia.
Dopo gli eventi del 1859[1], nonostante l’armistizio di Villafranca, non vi poteva essere intesa ed azione comune in Italia delle due Potenze Cattoliche, la Francia e l’Austria. E senza l’accordo diretto e fattivo tra Parigi e Vienna, tutto era possibile nella penisola, in quanto l’una ostacolava l’altra a favore di quello che a Roma veniva chiamato, “tout court”, “la rivoluzione” .
In tutti gli avvenimenti del 1860, il governo Pontificio credette che esistesse una intesa tra Francia ed Austria, e su questa base si contrastasse la “rivoluzione”  a favore dello Stato Pontificio, a difesa del Santo Padre e a salvaguardia del suo potere temporale, in nome della universalità della religione di Cristo. E questo fu il primo errore commesso.
Nel discorso della Corona del Gennaio 1860, la Regina Vittoria, sottolineando l’atteggiamento inglese, ebbe a sottolineare “….che appoggerebbe il principio di libertà negli Italiani di governarsi da loro”  a cui era seguito, a metà dell’anno, un altro significativo intervento, in cui si precisava che “…se niuna potenza straniera interverrà in Italia, la tranquillità degli altri Stati non correrà alcun pericolo di sorta”[2]
Parole dirette soprattutto a Vienna, la quale, a più riprese, aveva dichiarato a Parigi e a Londra, che non sarebbe intervenuta in Italia se le sue frontiere non fossero state minacciate. Era questa politica la risultante della situazione della Monarchia danubiana, che non aveva più forze per essere attiva sui suoi settori frontalieri, il nord verso la Boemia e, in generale, la Germania, l’est verso l’Ungheria, a sud-est, verso i Balcani e verso il sud, cioè l’Italia.[3] Questa politica difensiva non voleva dire che, in eventuale situazione favorevole determinatesi in Italia a fronte di smacchi o sconfitte da parte delle forze del Regno di Sardegna, non si cogliesse l’occasione per intervenire e ripristinare la situazione riconquistando i territori ceduti e rimettendo sul trono i regnanti filo austriaci. La possibilità di tentare colpi di mano reazionari era suffragata dalla ferma convinzione che si aveva a Vienna, che, se attuati, nessuna potenza si sarebbe mossa a difesa del Regno di Sardegna.
E questo fu il secondo errore commesso dal Governo di Roma. Sperare in un disastro delle forze nemiche, a fronte del quale si poteva avere la possibilità che l’Austria cogliesse l’opportunità di un colpo di mano reazionario significava veramente giocare d’azzardo, e gestire la situazione con fughe in avanti, basate su speranze ed illusioni.[4]
La Francia non poteva dimenticare i morti di Solferino e tutti i sacrifici fatti per estendere la propria influenza in Italia. Già l’intervento del 1849 a sostegno del ripristino del potere temporale dei Papi, dichiarato cessato dalla Repubblica Romana, di Armellini, Mazzini e Saffi, era costato troppo in relazione ai risultati ottenuti.
In pratica l’Austria, con un minimo sforzo,  era riuscita a mantenere la sua influenza su tutta l’Italia centro-settentrionale. Avergli strappato, nel 1859, la Lombardia e sottratto le Romagne alla sua influenza era già un gran passo. Ora occorreva gestire la situazione che si era determinata in modo che tutto questo si consolidasse. Ma, contemporaneamente, non si poteva vedere di cattivo occhio, il sorgere di eventi che limitassero  ulteriormente l’influenza austriaca in Italia.
Questo fu il terzo errore commesso dal Governo di Roma. La Francia non avrebbe preso nessuna iniziativa se azioni “rivoluzionarie” avessero sottratto ulteriori provincie allo Stato Pontificio. L’unica condizione che poneva era quella che al Papa non si doveva sottrarre il cosiddetto “Patrimonio di San Pietro”, ovvero l’odierno Lazio, territorio ritenuto necessario per esercitare liberamente il proprio potere di Capo della Chiesa Cattolica.
Al di là degli equivoci che si manifesteranno sul piano sia militare che diplomatico, e delle male interpretazioni di dispacci provenienti da Parigi e dall’Imperatore, questo di non aver capito che la Francia non si sarebbe opposta ad azioni che limitassero il predominio austriaco in Italia, fu veramente grave da parte del Governo di Roma.


[1] Il Regno di Sardegna, con la politica del suo primo Ministro, Cavour, che nel 1856, al Congresso di Parigi a cui aveva il diritto di presenziare a pieno titolo in quanto aveva preso parte con un corpo di spedizione alla guerra di Crimea combattuta, da una parte da Francia, Impero Ottomano ed Inghilterra, e dall’altra la Russia, Congresso in cui riuscì a porre alla attenzione del concerto europeo il problema della unità d’Italia, nonostante la forte opposizione di Vienna. Con abilità sia politica che diplomatica nella primavera del 1859, in virtù di un trattato difensivo, Cavour riesce a provocare l’Austria costringendola a dichiarare guerra; ciò provoca l’intervento della Francia di Napoleone III, decisa, dopo gli eventi del 1849, a limitare l’influenza austriaca in Italia estendendone la propria.  Scesi nella pianura lombarda  i Francesi, la guerra si sviluppa attraverso battaglie, la prima a Magenta, dopo la quale viene liberata Milano, e poi soprattutto Solforino e San Martino, dove gli Austriaci, sconfitti, sono costretti ritirarsi nel Veneto. In questi frangenti cadono gli Stati filoaustriaci dell’Italia centrosettentrionale in virtù di moti popolari di orientamento nazionale che danno vita ad una Lega dell’Italia Centrale, ma con l’intento di unirsi il prima possibile al Regno di Sardegna. Lo Stato Pontificio, in questi frangenti, perde le cosiddette Legazioni, le provincie dell’Emilia e della Romagna. Napoleone III, dopo Solferino, pressato anche dal forte partito Cattolico e soprattutto dalle elevate perdite sofferte sul campo di battaglia e da altri motivi contingenti, improvvisamente e senza consultare né Cavour né il Re di Sardegna, chiede all’Imperatore d’Austria un armistizio, che fu subito accettato dagli Austriaci. Il Cavour si dimette, ma nelle successive trattative diplomatiche scattano i patti già conclusi. In cambio di Nizza e Savoia, la Francia, che l’aveva precedentemente avuta dall’Austria, cede la Lombardia al Regno di Sardegna, mentre la Lega Centrale si orienta sempre più verso Torino. Un Congresso per la pace è tenuto  nel 1859 a Zurigo per regolare ogni questione, ma tutte le parti coinvolte in questi avvenimenti ritengono la situazione non soddisfacente e si preparano a nuove eventi, convinti di cambiare la situazione acquisitasi per favorire i loro interessi.
[2] Genova di Revel A., Da Ancona a Napoli. Miei Ricordi., Milano, Fratelli Dumolard, 1892, pag. 24
[3] Questa debolezza si paleserà nel 1866 quanto la Germania, avviato il suo processo di unificazione, attaccherà l’Austria e la sconfiggerà a Sedowa, costringendola tra, l’altro, a rinunciare al Veneto a favore dell’Italia; l’anno successivo l’Ungheria, per rimanere nell’Impero, chiederà ed otterrà di essere un Regno con un ampia autonomia politico-amministrativa. L’Impero sarà non più d’Austria, ma d’Austria-Ungheria.
[4] Per fronteggiare questa situazione il Comando Sardo aveva predisposto un piano di difesa estremamente robusto. Senza dare nell’occhio  aveva schierato il I Corpo d’Armata (al comando del De Sonnaz) ed il III Corpo d’Armata (Durando) a difesa della linea del Po da Ferrara a Casalmaggiore, ed il II Corpo d’Armata (Lamarmora) a difesa di quella del Mincio dal Po al Lago di Garda. Inoltre erano stati organizzati numerosi battaglioni mobili di Guardia Nazionale, i quali erano orientati a presidiare e mantenere l’ordine pubblico. In totale a metà del 1860 oltre 150.000 soldati erano schierati per fronteggiare l’Austria. Inoltre, tutto il piano di invasione delle Marche e dell’Umbria era incardinato su questo piano generale di difesa. Nel caso che l’Austria, dopo l’inizio dell’invasione avesse mosso guerra, il IV Corpo d’Armata (Cialdini) che agiva lungo la litoranea adriatica, ed era il più consistente, avrebbe invertito la marcia e si sarebbe attestato a riserva e sostegno delle forze schierare da Ferrara a Casalmaggiore, mentre il V Corpo d’Armata (Morozzo della Rocca), avrebbe, si conquistato l’Umbria, ma avrebbe, come poi fece, anche passato gli Appennini e posto l’assedio ad Ancona. Per questi aspetti vds. Coltrinari M., Il combattimento di Loreto, detto di Castelfidardo, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2009., in particolare la parte introduttiva. Vds anche dello stesso autore, L’investimento e la Presa di Ancona, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2010. Con l’avvertenza indicata nella nota 1 della Premessa.