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mercoledì 31 agosto 2022

Osimo e la questione agraria 5 La produzione e le strade

 

Osimo negli anni trenta. Comune rurale. La produzione e le strade

 

Osimo come centro attivo agricolo negli anni trenta registrava come principali prodotti agricolo-alimentari il grano, il vino ed il bestiame. Questo prodotti sono in esuberanza per il mantenimento della popolazione, quindi si è superata, rispetto al periodo post-unitario, la soglia della economia di sussistenza, per arrivare all’economia di mercato. Il bestiame da carne in esubero viene venduto sul mercato a compratori forestieri che lo smistano poi non solo verso le Marche, ma anche alle altre regioni limitrofe. Il Foro Boario degli anni trenta era uno dei punti caratteristici di Osimo con i suoi incontri settimanali e le sue fiere. Fino agli anni settanta del secolo scorso era fiorente la tradizione delle ricorrenze religiose legate all’agricoltura ove gli animali erano inghirlandati ed infiocchettati e portati anche in processione. Una sorta di festa pubblica, più con sfumature pagane che cristiane, ma certamente una vetrina in cui, con orgoglio, si mostrava un buon prodotto. Avvenimenti particolarmente sentiti, anche nella ritualità, e che vedeva una partecipazione di tutta la comunità. Particolari ricordi in famiglia per queste feste all’Abbadia ove il Parroco, Don Vincenzo Scarponi, zio di Filippo, pilastro centrale della comunità che viveva con riferimento alla Chiesa, era l’animatore e il centro di riferimento per la popolazione, non solo spirituale.

Il grano veniva assorbito integralmente e, attraverso i sei molini che esistevano in Osimo, era poi immesso nel commercio, anche se per lo più a raggio non molto esteso.

Il vino era la nota dolens. Filippo Scarponi non spiega le cause, rifugiandosi dietro il classico “ per un complesso di cause, che non è il caso qui di accennare, questo prodotto principale rimane costantemente nelle cantine padronali o per lo meno è lievissima la sua esportazione. Una delle cause che si possono individuare, a fattor comune di tutte le Marche, è l’assenza di iniziativa imprenditoriale da parte dei produttori, cioè dei “Padroni”, proprietari terrieri, non latifondisti, che non si avventurano nel campo della esportazione e della conquista dei mercati, per non rischiare. La loro educazione, il loro essere, la loro cultura e il loro modo di vivere non andava oltre l’orizzonte dei campi. Dovremo attendere il secondo dopoguerra, quanto, grazie alle iniziative non di agricoltori, ma di industriali, in prima fila la ditta FAZI-Battaglia di Castelplanio, dove si arriverà con il Verdicchio dei Castelli di Jesi (con la famosa bottiglia ad anfora ed il foglietto esplicativo allegato) a esportare il vino non solo oltre regione, ma in tutta Europa. L’esempio imprenditoriale fu seguito ed oggi (vds. Rosso Conero e tante altre etichette) il vino marchigiano ha una sua commercializzazione ed è una risorsa. Negli anni trenta questa capacità, più per ragioni culturali che tecniche, non esisteva ed il vino rimaneva nelle cantine del “Padrone”, che ne era orgoglioso e se ne vantava; una ricchezza veramente non utilizzata.

Una fitta rete di strade agevola le comunicazioni del territorio con il centro del Comune. Tra i singoli punti del territorio, per mezzo di strade comunali e private, buonissima è la colleganza. Tutto ciò facilita notevolmente i trasporti delle derrate che dalla campagna alla città si compiono per mezzo del bestiame da lavoro del contadino, e solo raramente con mezzi meccanici (camion); mentre dai magazzini della città ai mercati o luoghi di smercio tali trasporti si effettuano con camion o per ferrovia.”[1] Osimo ebbe da subito dopo la sua stazione ferroviaria oltre l’Abbadia, appunto la Stazione d’Osimo, nella via di facilitazione naturale verso il mare, Numana e Sirolo, e quindi il complesso delle comunicazioni era accettabile. Negli anni trenta, quindi, era tutto un andare e venire di “birocci” (carro agricolo marchigiano trainato in genere da bovini, in gergo dialettale “le vacche”) tra la campagna ed il centro, che spesso erano affiancati e superati, questi “birocci” dai cosiddetti “calessi” mezzo di locomozione a traino animale (il cavallo) per persone, usate per lo più da persone abbienti e di un certo lignaggio. Le strade non erano asfaltate, ma sterrate; in estate piene di polvere, che non era fastidiosa se non transitava qualche automobile, negli anni trenta una rarità ed oggetto di attenzione ed ammirazione; in inverno fango e neve. Caratteristiche delle strade, in genere, era la presenza la centro di un rialzo con l’erba. La manutenzione, per le esigenze del tempo, era accettabile grazie all’opera sia diretta dei contadini che provvedevano a sistemarle nel loro raggio di casa (non per senso civico, ma per il loro interesse), sia del cosiddetto “stradino” che a piedi con un carretto trainato a mano provvedeva ad eliminare ostacoli, buche e fossi scavati dall’acqua provvedendo ad una manutenzione costante. Quella che oggi si invoca per tante strade del territorio, prima fra tutte quella che dal bivio della Gironda porta al bivio dell’Abbadia.  Tra le vibrazioni che fanno tanto bene alla schiena, la equilibratura alterata delle ruote, gli ammacchi ai cerchioni, in quel tratto di strada si va tanto spesso con nostalgia a rimpiangere il tempo di quando in Osimo operava lo “stradino”.



[1] Il corsivo è tratto da Filippo Scarponi, Il colono mezzadro ed il piccolo proprietario coltivatore in un  comune rurale di una provincia marchigiana, Tesi di Laurea, Anno Accademico 1929 -1930


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