Osimo negli anni
trenta. Comune rurale. La produzione e le strade
Osimo come centro attivo agricolo negli anni trenta
registrava come principali prodotti agricolo-alimentari il grano, il vino ed il
bestiame. Questo prodotti sono in esuberanza per il mantenimento della
popolazione, quindi si è superata, rispetto al periodo post-unitario, la soglia
della economia di sussistenza, per arrivare all’economia di mercato. Il
bestiame da carne in esubero viene venduto sul mercato a compratori forestieri
che lo smistano poi non solo verso le Marche, ma anche alle altre regioni
limitrofe. Il Foro Boario degli anni trenta era uno dei punti caratteristici di
Osimo con i suoi incontri settimanali e le sue fiere. Fino agli anni settanta
del secolo scorso era fiorente la tradizione delle ricorrenze religiose legate
all’agricoltura ove gli animali erano inghirlandati ed infiocchettati e portati
anche in processione. Una sorta di festa pubblica, più con sfumature pagane che
cristiane, ma certamente una vetrina in cui, con orgoglio, si mostrava un buon
prodotto. Avvenimenti particolarmente sentiti, anche nella ritualità, e che
vedeva una partecipazione di tutta la comunità. Particolari ricordi in famiglia
per queste feste all’Abbadia ove il Parroco, Don Vincenzo Scarponi, zio di
Filippo, pilastro centrale della comunità che viveva con riferimento alla
Chiesa, era l’animatore e il centro di riferimento per la popolazione, non solo
spirituale.
Il grano veniva assorbito integralmente e, attraverso i sei
molini che esistevano in Osimo, era poi immesso nel commercio, anche se per lo
più a raggio non molto esteso.
Il vino era la nota dolens. Filippo Scarponi non spiega le
cause, rifugiandosi dietro il classico “ per
un complesso di cause, che non è il caso qui di accennare, questo prodotto
principale rimane costantemente nelle cantine padronali o per lo meno è
lievissima la sua esportazione. Una delle cause che si possono individuare, a
fattor comune di tutte le Marche, è l’assenza di iniziativa imprenditoriale da
parte dei produttori, cioè dei “Padroni”, proprietari terrieri, non
latifondisti, che non si avventurano nel campo della esportazione e della
conquista dei mercati, per non rischiare. La loro educazione, il loro essere,
la loro cultura e il loro modo di vivere non andava oltre l’orizzonte dei
campi. Dovremo attendere il secondo dopoguerra, quanto, grazie alle iniziative
non di agricoltori, ma di industriali, in prima fila la ditta FAZI-Battaglia di
Castelplanio, dove si arriverà con il Verdicchio dei Castelli di Jesi (con la
famosa bottiglia ad anfora ed il foglietto esplicativo allegato) a esportare il
vino non solo oltre regione, ma in tutta Europa. L’esempio imprenditoriale fu
seguito ed oggi (vds. Rosso Conero e tante altre etichette) il vino marchigiano
ha una sua commercializzazione ed è una risorsa. Negli anni trenta questa
capacità, più per ragioni culturali che tecniche, non esisteva ed il vino
rimaneva nelle cantine del “Padrone”, che ne era orgoglioso e se ne vantava;
una ricchezza veramente non utilizzata.
“Una fitta rete di
strade agevola le comunicazioni del territorio con il centro del Comune. Tra i
singoli punti del territorio, per mezzo di strade comunali e private,
buonissima è la colleganza. Tutto ciò facilita notevolmente i trasporti delle
derrate che dalla campagna alla città si compiono per mezzo del bestiame da
lavoro del contadino, e solo raramente con mezzi meccanici (camion); mentre dai
magazzini della città ai mercati o luoghi di smercio tali trasporti si
effettuano con camion o per ferrovia.”[1] Osimo
ebbe da subito dopo la sua stazione ferroviaria oltre l’Abbadia, appunto la
Stazione d’Osimo, nella via di facilitazione naturale verso il mare, Numana e
Sirolo, e quindi il complesso delle comunicazioni era accettabile. Negli anni
trenta, quindi, era tutto un andare e venire di “birocci” (carro agricolo
marchigiano trainato in genere da bovini, in gergo dialettale “le vacche”) tra
la campagna ed il centro, che spesso erano affiancati e superati, questi
“birocci” dai cosiddetti “calessi” mezzo di locomozione a traino animale (il
cavallo) per persone, usate per lo più da persone abbienti e di un certo
lignaggio. Le strade non erano asfaltate, ma sterrate; in estate piene di
polvere, che non era fastidiosa se non transitava qualche automobile, negli
anni trenta una rarità ed oggetto di attenzione ed ammirazione; in inverno
fango e neve. Caratteristiche delle strade, in genere, era la presenza la
centro di un rialzo con l’erba. La manutenzione, per le esigenze del tempo, era
accettabile grazie all’opera sia diretta dei contadini che provvedevano a
sistemarle nel loro raggio di casa (non per senso civico, ma per il loro
interesse), sia del cosiddetto “stradino” che a piedi con un carretto trainato
a mano provvedeva ad eliminare ostacoli, buche e fossi scavati dall’acqua
provvedendo ad una manutenzione costante. Quella che oggi si invoca per tante
strade del territorio, prima fra tutte quella che dal bivio della Gironda porta
al bivio dell’Abbadia. Tra le vibrazioni
che fanno tanto bene alla schiena, la equilibratura alterata delle ruote, gli
ammacchi ai cerchioni, in quel tratto di strada si va tanto spesso con
nostalgia a rimpiangere il tempo di quando in Osimo operava lo “stradino”.
[1] Il corsivo è tratto da Filippo Scarponi, Il colono mezzadro ed il piccolo
proprietario coltivatore in un comune
rurale di una provincia marchigiana, Tesi di Laurea, Anno Accademico 1929
-1930
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