Alberto
Recanatini riguardo la partenza da Ancona del 93° Reggimento fanteria così scrive:
“Molti giovani della provincia ( di Ancona,
n.d.a) e sopratutto i paesi limitrofi della città, ricevuta la cartolina di
mobilitazione, furono avviati alla caserma del 93° (Reggimento fanteria) e
cucirono sulla loro giubba la mostrina del Reggimento che era gialla con due
righe rose. Qualche giorno prima della dichiarazione di guerra, una mattina
presto del maggio 1915, i tre battaglioni del 93°, completi nei ranghi,
uscirono, una compagnia dietro l’altra, dalla porta principale della caserma
Villarey e dal passo carraio verso via Cardeto; poi percorrendo via
Indipendenza, attraversarono la città addormentata e si avviarono verso la
stazione. Il quartiere era ormai abituato al passo cadenzato dei soldati, ma
quella mattina, sotto il peso dello zaino affardellato e con l’equipaggiamento
di guerra, esso era particolarmente greve. Quelli che ancora dormivano si
svegliarono e corsero alle finestre per guardare quel fiume interminabile di
gioventù che andava a morire.
Molti
hanno raccontato che si commossero per il silenzio grave che c’era
in quel corteo, interrotto solo dai comandi secchi degli ufficiali che
camminavano a lato delle compagnie e dei plotoni. Sembrava che andassero ad una
parata militare, come tante altre volte; sembravano i preparativi per la
sfilata della prossima festa dello Statuto che ricorreva il due giugno, ma
tutti capirono che non era una parata dal tascapane gonfio di bombe, dalle
giberne straboccanti di caricatori, dalle vanghette di traverso degli zaini per
scavare le trincee, dagli occhi smarriti delle reclute. Portavano la morte
negli zaini. Portavano la morte nel
cuore e “nella gola il pianto dell’ultimo addio”.
Da questo si riconosce un reggimento che va
in guerra più che dai trepiedi della mitraglia sopra gli zaini dei puniti. E
portavano la loro bandiera di guerra in testa al corteo. Quella che di solito
sta nella stanza del Colonnello Comandante il quale la custodisce come il
vestito per un giorno di festa per poi tornare a riporta tutta sgualcita e
strappata.
Tra questi soldati che marciavano zaino in
spallate taluni con il fucile più lungo
di loro, tanti ce n’erano di Camerano. C’era Spadari Mario che morirà il 30
giugno alla Rocca di Monfalcone, c’era Simonetti Clemente che cadrà il 4
agosto, c’era Scandali Ciriaco che morirà appena rientrato dalla prigionia,
c’era Lucesole Amedeo che morirà all’Ospedale Militare di Verona il 3 gennaio
1916.
E c’era Recanatini Raimondo, col destino della sua “prima pallottola”, un
destino che si sarebbe compiuto il 10 giugno 1915 tra pochi giorni appena.
Alcuni di quelli di Ancona, che passavano
presso le loro case guardavano per l’ultima volta verso le finestre: il viso
delle madri teso a cercare tra i tanti, tutti uguali, il figlio suo. Il volto
serio e composto del padre. La gabbiola del canarino attaccata alla persiana. I
panni stesi ad asciugare, il vaso dei gerani pericolosamente in bilico sul
davanzale. La finestra chiusa della ragazza del cuore. (Accidenti se glielo
avessi detto che l’amavo adesso avrei meno tristezza. Le scriverò). Qualche
passante si ferma in istrada a guardare. Passa il Novantreesimo. Parte il
Novantatreesimo con in gola il piano dell’ultimo addio.
Raggiunge la stazione dove si sta formando
la tradotta. Una locomotiva ansimante in testa ad un lungo interminabile treno
di vagoni. La voce che il reggimento parte si è sparsa per la città e molti
familiari corrono alla stazione. Alcuni soldati che sono già sul treno saltano
giù per l’ultimo abbraccio, questa volta senza armi e senza zaino, ma nella
stretta dei corpi le giberne piene di caricatori fanno dolore. Alcuni sergenti
gridano di risalire sui vagoni; altri fanno finta di non vedere e con gli occhi
cercano anche loro qualcuno tra la gente. I reali carabinieri cercano di
impedire che la folla si avvicini al treno, ma più ci riescono i mucchi di
materiale di guerra del reggimento ammassati sul marciapiede pronti da caricare
sui vagoni di coda. I preparativi per la partenza sono lunghi ed estenuanti,
poi con un acuto fischio e getti di vapore della locomotiva il treno si muove
con sussulti che sembrano scrollare dall’anima ogni malinconia. Molti salutano
dai finestrini, ma i più preferiscono non guardare fuori e ricacciano in gola la tristezza dell’addio.
Altri ostentano indifferenza, giocando a carte. Il treno lasciò la stazione pesante
ed ansimante. La gente, non più trattenuta dai carabinieri, irruppe sul
marciapiede e lo guardava allontanarsi lento lungo il binario: si augurava che
non arrivasse mai alla frontiera e che
almeno fosse finita la guerra prima che vi arrivasse. Poi lentamente tornò in
città. In fondo a via Indipendenza il portone della caserma era rimasto
spalancato sul cortile vuoto. Come la casa di un morto per chi ritorna dal
camposanto dopo l’accompagno”[1]
[1]
Recanatini A., Di che brigata sei? La mia
ha i colori di Camerano. Storie e racconti di soldati cameranesi nella Prima
Guerra Mondiale. 1914-1918, Camerano, Comune di camerano Biblioteca di
Camerano, 1994.
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