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martedì 4 aprile 2017

93° Reggimento fanteria: la partenza da Ancona per il fronte

Alberto Recanatini riguardo la partenza da Ancona del 93° Reggimento fanteria così scrive:

“Molti giovani della provincia ( di Ancona, n.d.a) e sopratutto i paesi limitrofi della città, ricevuta la cartolina di mobilitazione, furono avviati alla caserma del 93° (Reggimento fanteria) e cucirono sulla loro giubba la mostrina del Reggimento che era gialla con due righe rose. Qualche giorno prima della dichiarazione di guerra, una mattina presto del maggio 1915, i tre battaglioni del 93°, completi nei ranghi, uscirono, una compagnia dietro l’altra, dalla porta principale della caserma Villarey e dal passo carraio verso via Cardeto; poi percorrendo via Indipendenza, attraversarono la città addormentata e si avviarono verso la stazione. Il quartiere era ormai abituato al passo cadenzato dei soldati, ma quella mattina, sotto il peso dello zaino affardellato e con l’equipaggiamento di guerra, esso era particolarmente greve. Quelli che ancora dormivano si svegliarono e corsero alle finestre per guardare quel fiume interminabile di gioventù che andava  a morire. 

Molti hanno raccontato che si commossero per il silenzio grave  che c’era  in quel corteo, interrotto solo dai comandi secchi degli ufficiali che camminavano a lato delle compagnie e dei plotoni. Sembrava che andassero ad una parata militare, come tante altre volte; sembravano i preparativi per la sfilata della prossima festa dello Statuto che ricorreva il due giugno, ma tutti capirono che non era una parata dal tascapane gonfio di bombe, dalle giberne straboccanti di caricatori, dalle vanghette di traverso degli zaini per scavare le trincee, dagli occhi smarriti delle reclute. Portavano la morte negli zaini. Portavano la  morte nel cuore e “nella gola il pianto dell’ultimo addio”.

Da questo si riconosce un reggimento che va in guerra più che dai trepiedi della mitraglia sopra gli zaini dei puniti. E portavano la loro bandiera di guerra in testa al corteo. Quella che di solito sta nella stanza del Colonnello Comandante il quale la custodisce come il vestito per un giorno di festa per poi tornare a riporta tutta sgualcita e strappata.

Tra questi soldati che marciavano zaino in spallate taluni con il fucile  più lungo di loro, tanti ce n’erano di Camerano. C’era Spadari Mario che morirà il 30 giugno alla Rocca di Monfalcone, c’era Simonetti Clemente che cadrà il 4 agosto, c’era Scandali Ciriaco che morirà appena rientrato dalla prigionia, c’era Lucesole Amedeo che morirà all’Ospedale Militare di Verona il 3 gennaio 1916. 

E c’era Recanatini Raimondo, col destino della sua “prima pallottola”, un destino che si sarebbe compiuto il 10 giugno 1915 tra pochi giorni appena.

Alcuni di quelli di Ancona, che passavano presso le loro case guardavano per l’ultima volta verso le finestre: il viso delle madri teso a cercare tra i tanti, tutti uguali, il figlio suo. Il volto serio e composto del padre. La gabbiola del canarino attaccata alla persiana. I panni stesi ad asciugare, il vaso dei gerani pericolosamente in bilico sul davanzale. La finestra chiusa della ragazza del cuore. (Accidenti se glielo avessi detto che l’amavo adesso avrei meno tristezza. Le scriverò). Qualche passante si ferma in istrada a guardare. Passa il Novantreesimo. Parte il Novantatreesimo con in gola il piano dell’ultimo addio.

Raggiunge la stazione dove si sta formando la tradotta. Una locomotiva ansimante in testa ad un lungo interminabile treno di vagoni. La voce che il reggimento parte si è sparsa per la città e molti familiari corrono alla stazione. Alcuni soldati che sono già sul treno saltano giù per l’ultimo abbraccio, questa volta senza armi e senza zaino, ma nella stretta dei corpi le giberne piene di caricatori fanno dolore. Alcuni sergenti gridano di risalire sui vagoni; altri fanno finta di non vedere e con gli occhi cercano anche loro qualcuno tra la gente. I reali carabinieri cercano di impedire che la folla si avvicini al treno, ma più ci riescono i mucchi di materiale di guerra del reggimento ammassati sul marciapiede pronti da caricare sui vagoni di coda. I preparativi per la partenza sono lunghi ed estenuanti, poi con un acuto fischio e getti di vapore della locomotiva il treno si muove con sussulti che sembrano scrollare dall’anima ogni malinconia. Molti salutano dai finestrini, ma i più preferiscono non guardare fuori  e ricacciano in gola la tristezza dell’addio. 

Altri ostentano indifferenza, giocando a carte. Il treno lasciò la stazione pesante ed ansimante. La gente, non più trattenuta dai carabinieri, irruppe sul marciapiede e lo guardava allontanarsi lento lungo il binario: si augurava che non arrivasse  mai alla frontiera e che almeno fosse finita la guerra prima che vi arrivasse. Poi lentamente tornò in città. In fondo a via Indipendenza il portone della caserma era rimasto spalancato sul cortile vuoto. Come la casa di un morto per chi ritorna dal camposanto dopo l’accompagno”[1]



[1] Recanatini A., Di che brigata sei? La mia ha i colori di Camerano. Storie e racconti di soldati cameranesi nella Prima Guerra Mondiale. 1914-1918, Camerano, Comune di camerano Biblioteca di Camerano, 1994. 

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