Notizie,documenti, contributi,riguardanti la Storia di Ancona e delle Marche.Inoltre contributi e note alla Storia Militare delle Marche sotto l'egida del Comitato Scientifico del Club Ufficiali Marchigiani. E' spazio esterno del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro per la collaborazione il CUM. (Info: centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
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domenica 5 novembre 2017
lunedì 23 ottobre 2017
lunedì 2 ottobre 2017
martedì 19 settembre 2017
Lo Scontro di Castelfidardo Anniversario
Alla presenza di autorità civili e militari, si è svolta a Castelfidardo (AN) nel piazzale antistante il sacrario-ossario dedicato ai caduti della battaglia del 18 settembre 1860, la celebrazione del 157° anniversario della battaglia.
A ricordare gli oltre seicento decorati della battaglia di Castelfidardo, in prima fila era presente una delegazione del Nastro Azzurro Provinciale con il Presidente Mondaini.
Dopo l'alzabandiera, l'inno nazionale e quello della regione Marche, sono intervenuti il Sindaco e la rappresentante del Prefetto D.ssa Calcagnini, il Commissario dell'Istituto di Storia del Risorgimento Italiano Dott.Tronca e l'Assessore Pieroni dell'Ente Regione per rimarcare l'alto significato della ricorrenza e ricordando che il Museo Risorgimentale di Castelfidardo è attualmente l'unico attivo nelle Marche.
Massimo Ossidi
lunedì 18 settembre 2017
mercoledì 12 luglio 2017
domenica 9 luglio 2017
martedì 23 maggio 2017
Ancona, 11 Giugno 2017 ore 17,30
L'Accademia di Oplologia e MIlitaria,
presenta, in occasione dei 90 anni di Padre Girolamo,
Servo di Maria educatore, e assistente scout, di generazioni di anconetani
in suo omaggio
presenta il volume di
Felice Signoretti,
Scritti ed Interventi
Le esperienze di una vita dedicata alla educazione dei giovani attraverso la testimonianza di un vecchio scout
Ancona,
Museo della Città, Piazza del Plebiscito 1
Domenica 11 giugno 2017 ore 17,30
venerdì 5 maggio 2017
venerdì 21 aprile 2017
Comprendere la Grande Guerra
ISTITUTO
DEL NASTRO AZZURRO
FRA
COMBATTENTI DECORATI AL V.M.
Presidenza
Nazionale
Centro
Studi sul Valore Militare
INVITO
Giovedì 27 aprile
2017 ore 17
In occasione della Giornata del
Decorato che si terrà ad Arezzo il 28-30 aprile 2017
Il Presidente Nazionale
Gen. Carlo Maria Magnani
Ha l’onore di invitare la S.V.
AL V
INCONTRO CON L’AUTORE
Tommaso
Gramiccia
Che presenterà il Volume
Comprendere la Grande Guerra
Dal Primo al Secondo anno di
guerra 1915-1916
Atti del convegno in occasione della Giornata del Decorato
Salò 23-24 aprile 2016
Saranno presenti i
Curatori, Massimo Coltrinari e Giancarlo
Ramaccia
ROMA
Presidenza Nazionale Nastro Azzurro Sala
Maggiore
Piazza Galeno 1 . V.le
Regina Margherita
centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
giovedì 20 aprile 2017
Saluto alla Reclute.
DISTRETTO DI RECLUTAMENTO DI ANCONA
La Nostra Grande Guerra 1915-1918.
Il saluto augurale del Comandante del Distretto alle Reclute partenti
Ancona Museo Civico Comunale
COL NOME FATIDICO D'ITALIA E DI ANCONA SULLE LABBRA E NEL CUORE,
LA VITTORIA SARA' CON VOI E PER VOI
CON QUESTO AUGURIO, PARTITE!
COL.........
Paritoclare. La folla delle reclute ascolta il discorso del
Colonnello Comandante il Distretto Militare di Ancona
Cimelio esposto alla mostra
"Ancona nella Grande Guerra"
Polveriera del Cardeto
2015-2016
mercoledì 5 aprile 2017
La Grande Guerra in provincia di Macerata. Il 1915
di massimo coltrinari*
La
provincia di Macerata, nel 1915, presenta suoi caratteri particolari nel
contesto della Grande Guerra. La provincia si presenta molto chiusa in se
stessa, con una popolazione dedita principalmente alle sue occupazioni, con una
visione che non va oltre la stretta cerchia del luogo in cui si vive, con
sporadici contatti con quelli limitrofi. La struttura economico-sociale è una
buona chiave d lettura per comprendere come questa provincia, sostanzialmente
amorfa rispetto ai grandi temi che agitavano il 1915, abbia poi partecipato
senza battere ciglio ed in massa alla Guerra, ai suoi sacrifici, alle sue
privazioni. L’economia della provincia era prevalentemente agricola di tipo
mezzadrile, con artigianato diffuso e piccola impresa, segnata da un fortissimo
radicamento alle tradizioni, al ritmo di vita sempre uguale, ove ancora sono
presenti i segni di oltre quattro secoli di dominio pontificio; una economia
che si appoggiava ai piccoli borghi, chiusi in se stessi, protetti e molto
lontano da ogni vicenda politica di interesse nazionale. In pratica la
provincia era ferma ad una realtà ottocentesca, gelosa delle proprie
tradizioni, fiera custode del rispetto delle gerarchie sociali, fortemente
rispettosa del nobilato locale, con il “Patrone” nella sua più ampia eccezione che era la centro di ogni relazione, molto
restia da ogni cambiamento. E pur vero che il capoluogo, Macerata, e qualche centro
sul litorale erano animati da fermenti alimentati dalle forze politiche,
cattoliche, repubblicane, socialiste, radicali che riflettevano i temi del
momento, ma nella sostanza tutto era ovattato, marginalizzato, in un
immobilismo ancorché fatalista apprezzato ed accettato. Iniziative non
mancavano, la presenza di associazioni cooperative e società di mutuo soccorso
movimentavano un quadro sociale che prometteva bene, ma la realtà
socioeconomica alla dichiarazione di guerra era sostanzialmente ferma ai canoni
sopra detti. Una provincia controllata ed ubbidiente, che rispetto alle altre
della regione non preoccupava soverchiamente le Autorità.
Emerge
in questo contesto il carattere peculiare della provincia: l’adesione totale
alla guerra, una volta dichiarata e accettazione della guerra per tutta la
durata della medesima. Furono richiamati, in linea con il dato regionale, oltre
il 90% dei maschi in età militare, un dato che ha inciso profondamente nella
realtà socio-economica. Ci si sarebbe aspettato una qualche forma di
opposizione consistente, in una situazione che toglieva tutta la forza lavoro
su cui si basava l’economia della provincia: invece l’adesione fu totale. Se si
considera che la zona costiera era stata dichiarata zona di operazioni e quindi
interdetta a tutte le attività non compatibili con le operazioni belliche ha
visto il territorio della provincia spegnere diverse attività nella zona del
litorale, mentre all’interno si diffondeva squallore, desolazione e miseria,
depauperato come era dalla forza lavorativa principale. Una comunità fortemente
rurale, la più mezzadrile d’Italia, che viveva in un isolamento fisico e
culturale con il concetto di Patria e di nazione limitato alla propria
collettività, che in pochi mesi vide cambiamenti radicali, diede una risposta
univoca, di partecipazione ed adesione alla guerra in modo integrale. Il
richiamo delle classi di leva, maggiormente quelle dal 1889 al 1897, si svolse
in modo disciplinato e senza opposizioni di sorta. Non vi furono conseguenze ne
contraccolpi durante tutta la guerra; li si ebbero nel primo dopoguerra, in cui
questa società ribollì di aspettative deluse e di rancori, fino a sfociare nel
fascismo che tutto incanalò nei suoi dettami per la presa del potere.
Questo
dato positivo di totale adesione alla guerra è ancora più interessante se si
prende in considerazione il fatto che questa popolazione nei mesi precedenti la
dichiarazione di guerra era, nella sua stragrande maggioranza, neutralista,
indifferente se non ostile nei confronti di un conflitto come quello europeo
che non si sentiva proprio, distante dai propri interessi. Lo scontro tra
neutralisti ed interventisti si svolse per lo più nel capoluogo e nei
principali centri, mentre le campagne erano intente alle loro occupazioni.
L’attacco dell’Austria alla Serbia, anche nella provincia innescò tensioni e
confronti che erano allo stato latente, iniziando a spostare gli equilibri politici
locali. Scrive Irene Massi:
“In parziale antitesi con quanto emerso nel
resto della regione, l’area maceratese vide l’emergere di tendenze nazionaliste
ed irredentiste che finirono per avvicinare sia la parte liberale
tendenzialmente filo-giolittiana, con una tendenza anomala rispetto al resto
del territorio regionale, che quella radical-democratica, che vedeva nel
conflitto l’occasione per abbattere il deprecato sistema giolittiano, unendo
quindi, al suo interno, soggetti portatori di visione politiche differenti e
sostanzialmente contrapposte, unite da una comune febbre bellica. Posizioni a
cui si contrapponeva il neutralismo del movimento cattolico, che preferì nel
tempo accostarsi alla linea politica del governo, e da una parte i socialisti, divisi,
a Macerata, tra la componente riformista di Lamberto Antolisei, che aderì al
fascio interventista e divenne in seguito presidente del locale Comitato di
Mobilitazione civile, e quella massimalista di Concetto Machella, ancorata su
rigide posizioni pacifiste.”[1]
Queste
contrapposizioni si evidenziarono in vari eventi e manifestazioni pubbliche,
come quella del dicembre 1914 in cui a Macerata fu fortemente contestato Cesare
Battisti. Mentre a Roma, i rappresentanti maceratesi si adeguavano alla politica
del governo senza se e senza ma, a livello locale emersero figure interessanti,
in quella meta del 1915, che danno un po’ di colore alla vita politica
maceratese. Figure che ebbero modo di
esprimersi attraverso i giornali locali[2], che in
gran parte crearono il clima favorevole per giustificare ed allo stesso tempo
motivare il superamento della neutralità,
come quella di Arturo Mugnoz e Vincenzo Cento.[3]
Arturo
Mugnoz è il prototipo di giovani borghesi, intellettuali, che volevano la
guerra per risolvere i problemi del momento. Lasciate le posizioni neutraliste,
era giunto a criticare fortemente il sistema politico giolittiano; la guerra,
secondo la sua idea, era lo strumento idoneo per il superamento della crisi
politico-istituzionale che paralizzava la politica italiana; strumento che
avrebbe permesso di completare il processo risorgimentale e la attuazione di
quelle idealità che erano alla base. Un impegno che combatteva il sistema
trasformista che impediva all’Italia una reale crescita politica e culturale.
La sua attività fu emblematica per avere una idea del clima che si era andato
formando nella primavera del 1915 nella provincia.
Alla
immediata vigilia del conflitto si era costituto a Macerata, e subito se ne
costituì un altro a Pollenza, Il Comitato di mobilitazione civile, che avevano
come attività principale la promozione dell’arruolamento volontario, l’attività
a prevenire l’azione di spie e collaboratori nemici, i primi passi per
l’assistenza ai militari al fronte. Grazie anche a questi Comitati che la
notizia della dichiarazione di guerra fu accolta con entusiasmo. I giornali
riportano, nei giorni successivi alla dichiarazione di guerra, le cronache
delle manifestazioni popolari che si svolsero, oltre che nel capoluogo, anche
nei centri della provincia, promosse dai Comitati di mobilitazione civile.
Queste manifestazioni si ebbero, oltre che a Macerata, a San Ginesio,
Tolentino, Treia, Porto Recanati, Caldarola, Civitanova Marche, San Severino,
Monte San Giusto. Manifestazioni che oltre ad esaltare le virtù patrie
promuovevano raccolta fondi per i combattenti, serate di beneficenza, attività
varie tutte volte a dare una immagine di una comunità che accettava la guerra e
credeva nella sua breve e trionfale vittoria.
La
notizia del bombardamento di Porto Potenza Picena, quindi nel territorio della
provincia, fu accolta con ferma virilità, non produsse, insieme a quelle del bombardamento
delle altre città delle Marche, gli effetti che gli Austriaci si aspettavano,
ovvero di rivolta e contrapposizione tra popolazione ed autorità, ma
suscitarono l’effetto contrario, ovvero determinazione per arrivare ad una
vittoria che in molti credevano imminente.
Sui
muri delle varie cittadine comparvero, oltre ai manifesti di mobilitazione, anche
quelli inneggianti ai valori patri, alla sicura certezza della vittoria,
all’unità ed alla concordia, oltre che a riferimenti ben chiari al Risorgimento
nazionale, che si doveva completare con la guerra appena dichiarata.
I
Consiglio Comunali divennero le tribune di questo desiderio di unità. Il
Sindaco di Macerata, nella prima seduta dopo la dichiarazione di guerra non
esitò a proclamare che si doveva accettare ogni cosa, anche quelle che non si
comprendevano; si sarebbe discusso a guerra terminata e vittoria conseguita. La
deputazione Provinciale.
Arturo
Mugnoz, non poteva non essere coerente con se stesso, arruolatosi volontario,
al momento di andare al fronte, in un
editoriale di commiato, pubblicato su “La Preparazione” del 6 giugno 1915 dal
titolo “Dalla penna al fucile”
scrisse “ “Avremo fatto il nostro dovere
se fra qualche mese potremo die di aver saputo usare il fucile così bene come
la penna.”
Il
clima creato dagli interventisti non poteva, come nelle altre provincie delle
Marche, avere dei rivolti contro i nemici interni, alle presunte spie ai
disfattisti. “La Preparazione” si lancio nei mesi successivi alla dichiarazione
di guerra, in una campagna veramente violenta contro tutto quello che si
riferiva all’Austria ed alla Germania. Si arrivò anche a forme che sfioravano
il razzismo, come la proposta di rispedire in Germania ed in Austria i
professori che insegnavano lingua tedesca. Accanto a queste forme i sospetti
erano alimentati nei confronti dei sacerdoti, in genere accusati di neutralità
e di aderenza alle idee vaticane favorevoli alla cattolica Austria.
Il
clima di euforia ed esaltazione patriottica non poteva però in quei mesi del
1915 nascondere la realtà. I primi sintomi della crisi dell’agricoltura dovuta
alla partenza dei contadini richiamati già si fece sentire con la vendemmia del
1915; la sospensione della pesca in Adriatico mise in crisi San Benedetto del
Tronto.
*centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
[1]
Manzi I., Il Maceratese, in Piccinini
G. (a cura di), Le Marche e la Grande
Guerra. 1915-1918, Ancona, Assemblea Legislativa delle Marche, Istituto per
la Storia del Risorgimento Italiano. Comitato Provinciale di Ancona, 2008, pag.
159.
[2] Qui si possono citare “La
Partecipazione”, interventista e “L’Energia”, pur interventista, “L’Unione”
espressione dei liberali locali, “Il Cittadino”, di tendenze conservatrici ed
ispirazione cattolica. Accanto a questi periodici, come fonte per avere dato
riguardanti questo periodo vi sono gli
“Atti del Comitato di Mobilitazione Civile di macerata”, atti custoditi presso
l’Archivio di Stato di Macerata.
[3] Interessante notare che in vari
giornali, ma soprattutto su “la Preparazione” apparvero scritti di epoca
risorgimentale contestualizzati alla realtà contingente. Lettere di Giuseppe
Verdi scritte al tempo della guerra franco-prussiana furono utilizzate per
creare odio verso l’Austria e la Germania; il Centenaro ella battaglia di
Tolentino, che cadeva nel 1915, ed i moti del 1817, furono utilizzati per
giustificare una scelta, quella interventista ritenuta non solo utile ma
necessaria.
martedì 4 aprile 2017
93° Reggimento fanteria: la partenza da Ancona per il fronte
Alberto
Recanatini riguardo la partenza da Ancona del 93° Reggimento fanteria così scrive:
“Molti giovani della provincia ( di Ancona,
n.d.a) e sopratutto i paesi limitrofi della città, ricevuta la cartolina di
mobilitazione, furono avviati alla caserma del 93° (Reggimento fanteria) e
cucirono sulla loro giubba la mostrina del Reggimento che era gialla con due
righe rose. Qualche giorno prima della dichiarazione di guerra, una mattina
presto del maggio 1915, i tre battaglioni del 93°, completi nei ranghi,
uscirono, una compagnia dietro l’altra, dalla porta principale della caserma
Villarey e dal passo carraio verso via Cardeto; poi percorrendo via
Indipendenza, attraversarono la città addormentata e si avviarono verso la
stazione. Il quartiere era ormai abituato al passo cadenzato dei soldati, ma
quella mattina, sotto il peso dello zaino affardellato e con l’equipaggiamento
di guerra, esso era particolarmente greve. Quelli che ancora dormivano si
svegliarono e corsero alle finestre per guardare quel fiume interminabile di
gioventù che andava a morire.
Molti
hanno raccontato che si commossero per il silenzio grave che c’era
in quel corteo, interrotto solo dai comandi secchi degli ufficiali che
camminavano a lato delle compagnie e dei plotoni. Sembrava che andassero ad una
parata militare, come tante altre volte; sembravano i preparativi per la
sfilata della prossima festa dello Statuto che ricorreva il due giugno, ma
tutti capirono che non era una parata dal tascapane gonfio di bombe, dalle
giberne straboccanti di caricatori, dalle vanghette di traverso degli zaini per
scavare le trincee, dagli occhi smarriti delle reclute. Portavano la morte
negli zaini. Portavano la morte nel
cuore e “nella gola il pianto dell’ultimo addio”.
Da questo si riconosce un reggimento che va
in guerra più che dai trepiedi della mitraglia sopra gli zaini dei puniti. E
portavano la loro bandiera di guerra in testa al corteo. Quella che di solito
sta nella stanza del Colonnello Comandante il quale la custodisce come il
vestito per un giorno di festa per poi tornare a riporta tutta sgualcita e
strappata.
Tra questi soldati che marciavano zaino in
spallate taluni con il fucile più lungo
di loro, tanti ce n’erano di Camerano. C’era Spadari Mario che morirà il 30
giugno alla Rocca di Monfalcone, c’era Simonetti Clemente che cadrà il 4
agosto, c’era Scandali Ciriaco che morirà appena rientrato dalla prigionia,
c’era Lucesole Amedeo che morirà all’Ospedale Militare di Verona il 3 gennaio
1916.
E c’era Recanatini Raimondo, col destino della sua “prima pallottola”, un
destino che si sarebbe compiuto il 10 giugno 1915 tra pochi giorni appena.
Alcuni di quelli di Ancona, che passavano
presso le loro case guardavano per l’ultima volta verso le finestre: il viso
delle madri teso a cercare tra i tanti, tutti uguali, il figlio suo. Il volto
serio e composto del padre. La gabbiola del canarino attaccata alla persiana. I
panni stesi ad asciugare, il vaso dei gerani pericolosamente in bilico sul
davanzale. La finestra chiusa della ragazza del cuore. (Accidenti se glielo
avessi detto che l’amavo adesso avrei meno tristezza. Le scriverò). Qualche
passante si ferma in istrada a guardare. Passa il Novantreesimo. Parte il
Novantatreesimo con in gola il piano dell’ultimo addio.
Raggiunge la stazione dove si sta formando
la tradotta. Una locomotiva ansimante in testa ad un lungo interminabile treno
di vagoni. La voce che il reggimento parte si è sparsa per la città e molti
familiari corrono alla stazione. Alcuni soldati che sono già sul treno saltano
giù per l’ultimo abbraccio, questa volta senza armi e senza zaino, ma nella
stretta dei corpi le giberne piene di caricatori fanno dolore. Alcuni sergenti
gridano di risalire sui vagoni; altri fanno finta di non vedere e con gli occhi
cercano anche loro qualcuno tra la gente. I reali carabinieri cercano di
impedire che la folla si avvicini al treno, ma più ci riescono i mucchi di
materiale di guerra del reggimento ammassati sul marciapiede pronti da caricare
sui vagoni di coda. I preparativi per la partenza sono lunghi ed estenuanti,
poi con un acuto fischio e getti di vapore della locomotiva il treno si muove
con sussulti che sembrano scrollare dall’anima ogni malinconia. Molti salutano
dai finestrini, ma i più preferiscono non guardare fuori e ricacciano in gola la tristezza dell’addio.
Altri ostentano indifferenza, giocando a carte. Il treno lasciò la stazione pesante
ed ansimante. La gente, non più trattenuta dai carabinieri, irruppe sul
marciapiede e lo guardava allontanarsi lento lungo il binario: si augurava che
non arrivasse mai alla frontiera e che
almeno fosse finita la guerra prima che vi arrivasse. Poi lentamente tornò in
città. In fondo a via Indipendenza il portone della caserma era rimasto
spalancato sul cortile vuoto. Come la casa di un morto per chi ritorna dal
camposanto dopo l’accompagno”[1]
[1]
Recanatini A., Di che brigata sei? La mia
ha i colori di Camerano. Storie e racconti di soldati cameranesi nella Prima
Guerra Mondiale. 1914-1918, Camerano, Comune di camerano Biblioteca di
Camerano, 1994.
sabato 1 aprile 2017
La Grande Guerra in Provincia di Ancona 1915
Nella
provincia di Ancona[1] la
guerra si presentò senza alcun ritardo, immediatamente , con il bombardamento che la Flotta austriaca effettuò all’alba del
primo giorno di guerra, il 24 maggio 1915[2]. I
Centri colpiti della provincia furono, oltre Ancona, Senigallia e Porto Potenza
Picena, e fu attaccato da idrovolanti l’aeroscalo di Jesi. Ancona subì i danni
maggiori. L’attacco austriaco, eseguito senza preavviso o segni premonitori e
con straordinaria tempestività, colsi di sorpresa la città in moto totale,
anche perché era stata dichiarata “città indifesa” in base alla Convenzione
dell’Aja del 1907. Anche per questo Ancona la notte dell’attacco aveva tutte le
luci accese e non vi era alcuna disposizione per l’oscuramento, cosa che diede
adito ad equivoci ed isterie, come vedremo più avanti.
Un
attacco che fu portato al cuore della Regione con il preciso intento di
provocare una rivolta della popolazione contro le autorità sia locali che
nazionali, rivolta che avrebbe ostacolato e non poco la mobilitazione in atto e
che poteva estendersi in modo incontrollato mettendo l’Italia in gravissima
difficoltà fin dai primi momenti di guerra. Un attacco contro una popolazione
che ancora ignorava compiutamente la nuova situazione di guerra, ma che il
nemico sapeva nei dettagli che in gran parte era ostile alla Monarchia, al
Governo alle Istituzioni, come gli eventi della “settimana rossa” dell’anno
precedente facevano ben comprendere. Un attacco le cui conseguenze furono di
notevole portata, poche materiali, morali e psicologiche in una popolazione
impreparata alla guerra, ma non tali da tradursi in aperta e palese ribellione
armata.
La
popolazione marchigiana, ed in particolare quella di Ancona, fu scioccata e
sgomenta da tanta inaspettata violenza e questo senso di sgomento perdurò molto
nel tempo; fu una brutale doccia fredda, una brusca e concreta presa di
coscienza ella nuova realtà della guerra, che nessuno immaginava così reale e
repentina, dopo tante esaltanti parole ed entusiasmi collettivi. Gli effetti
non materiali del bombardamento li si ebbero anche nei paesi dell’immediato
retroterra e nell’area collinare e montana. A Jesi, al centro della provincia,
l’azione degli idrovolanti austriaci nella stessa mattina del 24 maggio, che
avevano come obiettivo l’aeroscalo dei dirigibili, produsse nella popolazione
jesina gli stessi effetti di quella di Ancona, così come quella di
Senigallia e Porto Potenza Picena,
colpite da fuoco nemico.
La
reazione all’attacco andò nella direzione opposta a quella che si aspettavano
gli Austriaci. In Ancona la sera stessa del 24 maggio si diede vita ad una
partecipata manifestazione patriottica a cui parteciparono migliaia di persone
che diedero vita ad un lungo corteo che si sviluppò tra l’Albergo della
Vittoria, che ospitava il comando militare distrettuale e le sedi consolari.
Può essere considerata questa manifestazione la risposta all’azione nemica, ed
anche il punto di partenza di quella mobilitazione civile, sostenuta in prima
fila dai repubblicani, che nella città e nella provincia fu particolarmente
ampia e le donne si segnalarono per la partecipazione in massa al
confezionamento degli indumenti militari al punto che la provincia di Ancona
risultò negli anni di guerra la terza provincia d’Italia per numero di capi
confezionati.
A
Falconara, dieci chilometri a nord di Ancona, all’alba del 24 maggio si udirono
sordi rumori provenienti da Ancona. Subito la popolazione capì che Ancona era
sotto attacco, ed alcuni avevano scorto torpediniere appostate proprio al largo
di Falconara. La reazione della popolazione fu improntata alla paura: i giovani
e gli anziani si radunarono nel prado dove
oggigiorno si trova il cosiddetto Balcone del Golfo, mentre i padri di famiglia
e le donne con i figli più piccoli fuggirono verso le campagne. Immaginavano
quello che stava accadendo senza il riscontro di una comunicazione ufficiale di
qualsiasi tipo. “Sarà Masseria, il
fattore, a dare la notizia della dichiarazione di guerra fra l’Italia e
l’Austria, per mezzo di un cartello affisso al portone della propria
abitazione, sita in via Leopardi 6, oggi via Pier Battista Farinelli.”[3]
Come prima reazione a questa
situazione, il Comune decise di colorare di blu tutte le lampadine
dell’illuminazione pubblica, per favorire l’oscuramento nel timore di nuovi
attacchi nemici.
Ad
Osimo, venticinque chilometri all’interno, il bombardamento di Ancona fu accolto
con sgomento e costernazione in quanto nessuno aveva mai sentito in vita sua il
tuono di un cannone nemico. Osimo aveva visto militari durante la “settimana
rossa dell’anno precedente, quando una compagnia di alpini arrivò da Bologna e
piazzò mitragliatrici nei punti nodali di Osimo. Ben presto la situazione torno
alla calma e dopo una quarantina di giorni gli alpini rientrarono nella loro
sede, ma la cittadina visse giorni inquieti a seguito di denunce, arresti ed
imputazioni a carico di 11 indiziati. Gli echi di quegli avvenimenti non si era
ancora spenta che anche in Osimo si accende sempre più lo scontro tra
neutralisti ed interventisti. Il prof. Romiti lascia la direzione della
“Sentinella delle marche”, il giornale di Osimo, che passa sotto il controllo
degli interventisti, mantenendo la sua linea anticlericale a sfondo massonico.
Nonostante tutto, la censura colpisce il giornale in vari momenti e spesso esce
con ampi spazi bianchi. Secondo Mons. Grillantini, storico osimano,
“l’aria, sino dagli inizi dell’anno, si fa
greve: le grida di “Abbasso l’Austria” e di “Viva la Francia” si fanno sentire
anche nell’aula delle sedute consigliari…. Nelle piazze le manifestazioni si
svolgono anche di sorpresa, purché se ne presenti l’occasione. Ricordiamo noi
di esserci trovati presenti ad una di queste, durante un servizio bandistico
per la festa della Pietà e di aver visto degenerare le cose in un tafferuglio,
nel quale intervenne la forza pubblica, che arrestò alcuni tra i più scalmanati
e tra essi il geom. Mario Ionna, ufficiale di complemento.”[4]
Questa
situazione, che è comune nella gran parte dei centri della provincia, non è la
migliore per affrontare la realtà della guerra. Ed Osimo né un esempio
lampante. Apprese sommarie notizie, a
sera si diffonde per tutta la cittadina un senso di euforia collettiva, per
essere stata diffusa la voce che la squadra austriaca che aveva attaccato
Ancona era stata attaccata, battuta e mal ridotta da unità della nostra Flotta,
che l’aveva attesa in alto mare. Grillanti così riporta quella sera del 24
maggio ad Osimo:
“Fuori le bandiere! Fu un grifo solo. Suono
di campane, corteo, grida, discorsi da trionfatori. Il rettore del “Campana” (noto
collegio di studio di Osimo, n.d.a) prof.
Fenici che è restio ad esporre la bandiera, osservando che sarebbe opportuno
aspettare la conferma ufficiale, è obbligato a piegarsi alle non garbate
imposizioni. Il mutismo dei giornali del mattino seguente gli diede ragione.
Ma, come da un lato si iniziò quella nuova aura di accuse di neutralismo, o peggio
di austriacantismo, così dall’altra si cercò di minare la posizione del Fenici,
accusato di intesa con i tedeschi. Il Fenici domandò un’inchiesta; e, per
quanto il Comune ed il Provveditore ne lo sconsigliassero, insiste presso il
Ministero. Risultò che il Fenici aveva tenuto corrispondenza con qualche
letterato tedesco solo per ragioni di studio; e si trattava di corrispondenza
di vecchia data, e nient’altro. Avuta la sua soddisfazione e garantita la sua
onorabilità, il Rettore, che altra volta aveva avuto offerte dal Collegio Nolfi
di Fano, e ora le aveva sollecitate, piantò in asso Collegio e Osimani, e dopo
un Rettorato provvisorio del Collegio Nazionale di terni, andò ad assumere il
rettorato del Nofi, né più lo vedemmo”[5]
Gli
effetti del bombardamento radicalizzarono tante situazioni che la vita civile e
sociale ne fu segnata per tutta la durata della guerra.
A
Senigallia, l’attacco austriaco[6] inflisse un duro colpo alla indifesa
popolazione: morirono 21 persone di cui 12 militari del 135° Battaglione della
Milizia territoriale in movimento su una tradotta militare diretta a Chieti
colpito poco prima che entrasse nella stazione senigalliese. LA reazione a
questo attacco fu incontrollata e numerosi contadini iniziarono a sfollare
verso l’interno ritenuto più sicuro ed anche in località extraregionali[7] , con
alcuni episodi di panico collettivo, sintono evidente della paura e
dell’angoscia che attanagliava la
popolazione. Il 26 maggio 1915, la
situazione era così grave a Senigallia, il sindaco, il repubblicano Aroldo
Belardi, faceva predisporre ed affiggere
il seguente manifesto:
Cittadini,
Una voce strana e maligna, non si sa come
diffusa, va serpeggiando per la città, recando l’annuncio che l’acqua
dell’acquedotto delle Selve sia stata avvelenata. Questa notizia, malamente
escogita allo scopo di diffondere l’allarme nella popolazione, è assolutamente
falsa e insussistente. Bastano a provarlo due fatti di evidenza palmare: il
primo, che una quantità rilevantissima di persone ha bevuto da ieri sera, (25
maggio 1915 , n.d.a.) , a stamane quell’acqua senza risentirne il menomo
disturbo; il secondo, che le chiusure tanto da presa alla sorgente, quanto del
Serbatoio di S. Gaudenzio sono state verificate completamente intatte, in guisa
da rendere impossibile qualsiasi attentato criminoso.”
La
situazione nella cittadina non era tranquilla se “il giorno dopo l’affissione di questo manifesto (27 maggio 1915), il sindaco rincarava la dose e ne firmava un
altro di forte intonazione patriottica con il quale ricordava che allo sfogo
della “barbarie nemica” sulla “ tranquilla ed inerme” replicavano i gloriosi
combattimenti dei soldati italiani sulla “ frontiera orientale”, che il “grave
dovere” da compiere come cittadini in quei difficili momenti consisteva nel
mantenersi “calmi e tranquilli” poiché la patria aveva bisogno non solo della
“forza delle armi” e del “ coraggio dei petti”, ma anche la “forza degli animi”
e della “disciplina degli spiriti”, che i cittadini dovevano riprendere “le
loro occupazioni”, rientrando negli opifici, riaprendo i negozi e tornando
ciascuno “in una parola al suo posto”; che era necessario placare
l’esasperazione, senza raccogliere “false notizie” su pericoli e “nemici
immaginari” che avrebbero solamente gettato nel panico la popolazione e che,
infine, le autorità civili e militari avevano ed avrebbero disposto misure
tempestive peer la tutela della “incolumità pubblica”.[8]
Anche
se non direttamente minacciate nel resto della popolazione il senso di sgomento
e di paura e di costernazione si radicò ben presto. In tutta la provincia, per
decenni successivi, le fonti orali ricordavano il senso di sgomento e di
angoscia che calò su tutti gli abitanti, indistintamente. Ognuno percepiva la
paura, non si sentiva protetto abbastanza, vedeva che poco o nulla era stato
fatto per contenere e respingere gli attacchi nemici e, passo molto breve, si
accusavano le Autorità sia civili ma soprattutto militari di non essere state
in grado di organizzare difese adeguate, dopo aver voluto la guerra a tutti i
costi. L’accusa, non tanto velata, che aleggiava in ogni dove era rivolta agli
interventisti, accusati di avventatezza, esaltazione e incoscienza. In parte
queste accuse venivano da coloro, vicini a coloro che non volevano la guerra o
veri e propri neutralisti che questa irresponsabilità, di cui si stava già
cominciando a pagarne il costo, stava mettendo a repentaglio l’esistenza della
stessa Nazione, solo per “liberare” Trento e Trieste.
massimo coltrinari
(centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
[1] Per un quadro generale della provincia
vds. Anselmi S. (a cura di), La Provincia
di Ancona. Storia di un territorio, Bari, Laterza , 1987.
[2] Una ampia descrizione di questo evento
è stata riporta nel volume precedente. Cfr. Coltrinari M., Le Marche e la Prima Guerra Mondiale. 1915.Tanto interventiste quanto
indifese, Roma, Società Editrice Nuova Cultura, 2016, pag. 155 e segg.
[3] Campana G., Marinelli G., Dal Borgo alla Marina. Settant’anni della
Cassa Rurale ed Artigiana di Falconara, Falconara, Cassa Rurale ed
Artigiana Falconare, Editoriale del falco, 1982, pag. 20 e segg. Vds inoltre
Campana G., Marinelli L., Marinelli G., Sabbatini A., Vecchia Falconara, Falconara, Foto Club Falconarese, Comune di
Falconara, 1975.
[4] Grillantini C., Storia di Osimo. Vetus Auximon, Pinerono, Scuola Tipografica
Cottolengo, 1969 Vol. II, pag. 904.
[5] Ibidem
[6] Ibidem
[7] Amatori F., L’interventismo anconetano 1914-1915 in L’imperialismo italiano e la Jugoslavia, Atti del convegno
italo-jugoslavo, Ancona 14-16 ottobre 1977, Anglia, Urbino, 1974, pag. 174.
[8] Severini M., L’Anconetano, in Piccinini
G. (a cura di), Le Marche e la Grande
Guerra. 1915-1918, Ancona, Assemblea Legislativa delle Marche, Istituto per
la Storia del Risorgimento Italiano. Comitato Provinciale di Ancona, 2008.
venerdì 31 marzo 2017
Brigata Marche 55° e 56 Reggimento Fanteria. Estate 1915. Documentazione iconografica
Area di Operazioni della "Brigata Marche" nell'estate del 1915
I Fanti del 55° Reggimento della Brigata marche divelgono il cippo di confine
al Passo Tre Croci Cortina
Hotel Tre Croci Cortina
Ufficiali del 55° Reggimento Fanteria Marche II Battaglione
Maggio 1915
Base logistica della Brigata marche a Nord di Auronzo di Cadore Estate 1915
Monte Piana. Trincee austriache su Monte Piano
Ufficiali della Brigata Marche in Val Ansiei
Soldati del 56° Reggimento della Brigata Marche divelgono il cippo di confine alla testa della valle Ansiei
Fante del 55° Reggimento Fanteria Marche momentaneamente ai lavori agricoli
9 Agosto 1915. Funerale di un Ufficiale italiano Caduto sul Monte Piana
Reticlati austriaci a nord di Fiammes, sopra Cortina per la strada di Alemagna
info: centrostudicesvam@istituonastroazzurro. org
giovedì 30 marzo 2017
La Grade Guerra a Pesaro e provincia 1915-1916
di Massimo Coltrinari
Università La Sapienza - Scienze Politiche
(studentiecultori2009@libero.it)
La
provincia di Pesaro, e Pesaro in particolare, vissero l’anno della neutralità,
il 1914, in un clima di contrapposizione ed in mezzo ad aspri dissidi tra le
componenti politiche locali, apertamente in contrasto su posizioni rigide e
inconciliabili. Coerenti con le contrapposizioni di scala nazionale, da una
parte vi erano repubblicani e socialisti, convinti antimilitaristi e
antimonarchici, dall’altra liberal-democratici, cattolici e conservatori in
genere. I giornali locali riflettevano questa divisione e questa impostazione
politica, ed alimentavano polemiche e divisioni, il più delle volte anche
inconsistenti, scivolando spesso su particolarismi e minuzie di campanile.[1] Nelle
elezioni amministrative, dopo amministrazioni comunali che avevano lasciato
strascichi e molta insoddisfazione, nel marzo 1915 fu eletto il sindaco Recchi,
sostenuto da una coalizione di liberali, socialisti e nazionalisti, i cosiddetti
partiti “costituzionali”, amministrazione che avrebbe dovuto affrontare i duri
anni di guerra. Già in quella primavera del 1915 erano affiorati i sintomi negativi
della guerra europea, quali il crescente carovita, il rientro degli emigrati,
per lo più diseredati e disoccupati, il blocco delle locazioni, che poi
verranno definitivamente congelati il 24 maggio alla dichiarazione di guerra,
ed altre turbative socio economiche. La giunta Recchi doveva anche misurarsi
con lo scontro tra neutralisti ed interventisti che si andava via via sempre
più rafforzando dall’inizio dell’anno; in particolare a Pesaro, i Repubblicani,
che avevano il loro leader in Giuseppe Ranganeschi, erano in apertissima
polemica, come su scala nazionale, con i socialisti, i cattolici ed i
conservatori liberali. La polemica era di altissimo tono e Ranganeschi la
alimentava di giorno in giorno, facendo leva anche sull’interventismo garibaldino
in Francia giungendo a dichiarare apertamente che i repubblicani avrebbero
rinunciato alla pregiudiziale antimonarchica a favore della guerra e si
dichiararono pronti a prestare giuramento al re e a combattere sotto le sue
bandiere pur di combattere il nemico
ereditario, l’Austria. Una dichiarazione che impressionò molto la cittadinanza
in genere in quando andava contro a decenni di contrapposizione e di lotte. Era
l’interventismo risorgimentale che collegava i temi dell’Unità nazionale del
Risorgimento con la politica attuale e che sparigliava tutte le carte. I socialisti
erano in difficoltà persistendo ancora nei temi della difesa delle classi più deboli
e del proletariato, mentre i cattolici erano molto più prudenti e con posizioni
alquanto defilate.
Nel
maggio 1915 una serie di manifestazioni a favore della guerra segnarono al vita
cittadina. Alla Pallacorda, mentre si teneva una conferenza su Aurelio Saffi,
l’oratore, Giuseppe Meoni, fu interrotto da ovazioni ad ogni accenno alla
Francia ed alla guerra all’Austria. Il 13 maggio 1915, nel clima generale che
si era andato instaurando nel paese, una grossa manifestazione percorse le vie
cittadine, al grido di “Abbasso
l’Austria!” “Abbasso gli assassini del Belgio!” “Abbasso Giolitti!” “Viva
Trento e Trieste.” “ La Sveglia Democratica” nel riportare la cronaca della
manifestazione ne esaltava i termini ed i contenuti scrivendo “Ecco la voce entusiastica e concorde d’una
fiumana di popolo reclamante dei supremi poteri dello Stato una politica veramente
nazionale”….Quanti si sentono Italiani nella mente, nel cuore, nel braccio non
disertino le piazze. La protesta deve essere immanente. O Guerra allo straniero
o rivoluzione”[2]
La
versione del “Il Progresso”, naturalmente era di opposto segno: la manifestazione
fu insignificante, con qualche centinaio di repubblicani, studenti e scalmanati,
intenti solo a fare chiasso e confusione per le vie della città, provocando
alterchi ed incidenti con i cittadini e con qualche soldato richiamato.
Una manifestazione indettata dai neutralisti
qualche giorno dopo, non ebbe successo.
I cattolici, come detto erano più defilati e prudenti, con un occhio al
futuro. Al momento della dichiarazione di guerra il messaggio che si fece
passare era chiaro: i cattolici avrebbero fatto il loro dovere, fino in fondo,
ma nessuno poteva accusarli di aver voluto, provocato o desiderato la guerra e
di aver trascinato l’Italia in un flagello di cui non si sapeva ancora le
proporzioni; era la premessa alla frase del papa, due anni dopo, della “inutile
strage”, che contraddistingue il modo cattolico, incapace di fermare le
violenze umane, per denunciandole e condannandole.
La
notizia della dichiarazione di guerra in via ufficiosa giunse a Pesaro il 23 maggio
a sera, non confermata e subito il clima politico cambiò. Chiunque si fosse opposto
alla guerra o non vi avesse partecipato era ormai considerato un “traditore” e
si diffuse un clima di tensione e sospetto dalle conseguenze imprevedibili. Si
diffusero le notizie più inverosimili, alimentate, sotto l’etichetta del “si
dice”, dalla fantasia eccita del popolo,
. Una studentessa austriaca del conservatorio di musica “ si dice, sia stata
arrestata per spionaggio; un dirigibile austriaco aveva sorvolato la città[3] ,
ceramiche ed opere d’arte si stavano imballando presso il Museo civico per
essere trasportate in luogo sicuro, al riparo di attacchi nemici che si
credevano imminenti, agenti germanici ed austriaci stavano sabotando la linea
ferroviaria, ed altre notizie incontrollate che trovavano gran credito presso
la popolazione. Sui muri della città apparvero finalmente i manifesti che
annunciavano lo stato di guerra, finalmente una notizia ufficiale e precisa.
Così
“Il Progresso” descrive l’alba del 24 maggio a Pesaro:
“La mattina del 24 maggio, poche ore dopo la
dichiarazione di guerra, i pesaresi sono stati svegliati dal violento, se pur
lontano, rombo del cannone….Molti concittadini si precipitarono sulle vie ed
accorsero alla marina dove si sentiva più violento il cannoneggiamento dalla
parte di Senigallia ed Ancona”[4]
La popolazione vive i momenti come
festa ed eccitazione pubblica ed anziché trovare riparo o protezione, si dirige
verso dove proveniva il rombo del cannone, cioè del pericolo. Nella giornata
del 24 si sparse la voce che la Flotta austriaca aveva bombardato Ancona, ma
che i treni lungo la linea adriatica continuavano a viaggiare regolarmente; in
molti pensarono che la linea ferroviaria, che nell’area pesarese, corre
parallela e a ridosso della spiaggia, era ed è un ottimo bersaglio per il
nemico. La giornata del 24 maggio fu
passata con la popolazione in piazza e nelle vie, che formava capannelli, tutta
tesa ad avere notizie e indiscrezioni, ma soprattutto in attesa della
pubblicazione dell’ordine di mobilitazione. Il massimo dell’entusiasmo fu
raggiunto, quando fu distribuito un giornale di Ancona, probabilmente
“L’Ordine-Il Corriere delle Marche”, che lo pubblicava. A questa esaltazione
segui immediatamente la pretesa dei più eccitati di pretendere la esposizione
della bandiera nazionale in tutti i palazzi pubblici e in gran parte delle
case private.
Il
decreto di mobilitazione fu affisso con manifesto domenica 25 maggio 1915, dando
vita ad altre manifestazioni di giubilo.
Il
Prefetto, conseguente alle disposizioni ricevuto, iniziò a mettere la città in
stato di guerra: ordinò, con le prime disposizioni, l’oscuramento, dal tramonto
all’alba, per contrastare attacchi nemici dal mare, vietò ogni manifestazione
pubblica, come comizi, assembramenti, processioni e privata che avessero le stesse
modalità. Iniziò a date disposizioni di carattere economico-sociale, mentre la
mobilitazione civile iniziava mettersi in moto.
La
mobilitazione militare coinvolse, naturalmente, tutta la provincia di Pesaro e
di Urbino. Tutti i Comuni ne furono coinvolti
e le classi richiamate incisero molto di più sulle comunità rurali che non nei
centri urbani, e questo impoverimento della forza lavoro in agricoltura non
poteva avere conseguente nell’immediato futuro, anche se nelle prime settimane
la partenza dei richiamati fu vista più come una festa che come un risvolto
negativo, tutti convinti che la guerra, sull’onda del “maggio radioso” si
sarebbe conclusa in poche settimane. Presente a Pesaro il fenomeno del
volontariato. Fra tutti emerse la figura dell’on. Ruggero Mariotti, notabile di
Fano, che ripetutamente chiese di partire volontario e infine la sua domanda fu
accolta ed arruolato come tenente nel 94° Reggimento fanteria, che, come detto,
aveva sede proprio a Fano.
E’ facilmente
comprensibile che le classi richiamate erano per la gran parte composte da
richiamati dalle campagne, dei contadini che, in percentuale erano la
maggioranza rispetto alle altre classi sociali. Per molti di loro era la prima
volta che lasciavano la terra che li aveva visi nasce nei due decenni ed oltre
della loro vita, al massimo avevano visto e frequentato il paese di riferimento,
qualcuno era stato, per fiere o altro, accompagnando i più anziani nel
capoluogo, ma niente di più. Era la prima volta che lasciavano la loro terra,
la lor regioni. Per molti fu anche l’ultima. Un dato è stato rilevato:[5] il
peso del dolore e della morte di giovai vite, che erano la speranza ed il
futuro, non si distribuì in modo omogeneo tra la campagna e la città, ma incise
in modo profondo e spesso crudele sulla prima, ed in misira tale della più o
meno estensione della comunità rurale. I maggiori centri urbani ebbero perdite
minori, su scala proporzionale, rispetto alle piccole comunità rurali.
L’esempio dello
studio che è stato portato a questa affermazione, avendo come riferimento il
censimento del 1911, è la provincia di Pesaro. A mano a mano che dalla costa si
risaliva verso l’entroterra vi è un aumento del peso percentuale dei caduti a
mano a mano che dalla costa si risaliva verso l’ entroterra: se Saltara,
Gradara, San Giorgio di Pesaro si mantennero intorno al 4% , alcuni dei comuni
a ridosso degli Appennini, come Maiolo, Sant’Agata Feltria, Talamello, Belforte
all’Isauro, Piandimileto e Cantiano presentano dei valori tra il 5,8 e l8.1%.
Alla fine del
conflitto, il Comune di Mombroccio ebbe 66 Caduti, tra cui molti dispersi; Il
Comune di Montecerignone ne avrebbe avuti 37; Frontino 16; Talamello 32;
Orciano ne avrebbe ricordati 38; Lunano 39; Gradara 44 ( di cui 24 “per ferite”
3 “dispersi” e 17 per malattie. Pesaro ebbe 414 Caduti.
Una
delle prime notizie che si apprese in città fu la istituzione di sei ospedali
militari di riserva, con la requisizione di scuole, e edifici pubblici. Tanto
era carente la protezione della città da offese aere, che la Società del Tiro a
Segno si offerse e predispose una
squadra di tiratori scelti, da porre su altane costruite sui tetti, per
contrastare azioni aeree nemiche; una sorta di contraerea privata, meglio di
niente data la assoluta assenza di ogni organizzazione difensiva. Si crearono
vari comitati, tutti frutto del fervore patriottico che aveva invaso la città.
Si creò un comitato pesarese per la raccolta dei fondi per l’assistenza alle
famiglie dei richiamati, che il 31 dicembre 2015 aveva raccolto 37038, 20 lire,
con il corollario di iniziative di vari gruppi ed associazioni per l’invio al
fronte di pacchi contenti viveri, ed indumenti di vestiario e generi vari. Un comitato fu creato per curare la
corrispondenza tra le famiglie e di militari al fronte, tenendo presente che
nelle Marche del 1915 l’analfabetismo era sull’ordine del 50% della
popolazione, come aveva sottolineato il censimento del 1911; in pratica si
avviava la pratica di persone di buona volontà che sapevano leggere e scrivere
che si mettevano a disposizione della famiglia, analfabeta, del richiamato;
questi, a suo volta analfabeta, si avvaleva per la lettura e la risposta o di
ufficiali subalterni di buon volere, o per lo più del cappellano militare e
suoi assistenti, o, in misura minore, di commilitoni. Questo fenomeno non fu
solo presente nella provincia di Pesaro, ma in tutte le provincie italiane,
dando origine ad un fenomeno collettivo che concorse, con altri della stessa
portata, costruzione del senso di
appartenenza e di identità nazionale.[6]
La mobilitazione civile dei primi mesi di guerra
ebbe anche caratteristiche peculiari di Pesaro.
“Odoardo Giansanti, il celebre cantastorie
dialettale che con le sue strofe esprimeva i sentimenti popolari biasimando il
caroviveri e fustigando gli imboscati
( Specialment sti sbarazeren
Ch’ià fatt tante l muscarden
Pel passed a fè cagnera
Urland fort viva la guera)
Nel riutilizzare vecchie canzoni ne espunse
parole come “coscritti”, che in passato aveva impiegato nel doppio senso di
soldato di leva e di grullo. Il bagno di sangue non consentiva più facili
ironie.”[7]
Occorre
rilevare che Pesaro, nella primavera del 1915 era in piena espansione edilizia
iniziata già da qualche anno, con nuovi quartieri progettati, in parte
costruiti, che aveva superato la vecchia cinta muraria ottocentesca, in gran
parte abbattuta per avere spazio all’ampliamento progettato. Tutto questo
processo di espansione inevitabilmente ebbe a frenare e a contrarsi nel corso
della guerra ed i primi sintomi li si ebbero proprio all’indomani della
dichiarazione di guerra. Il settore edilizio entrò in crisi per la carenza di
manodopera specializzata, in grandissima parte reclutata per il fronte e quella
rimanente assorbita dalle esigenze militari. Carenze gravi via via si
produssero nel settore del legname, dei mattoni e del marmo e dei loro
derivati. Accanto a quello della edilizia, entro in crisi, comune a tutte le Marche,
il settore della pesca, per le imposizioni restrittive imposte dalle autorità
militari e dalle oggettive condizioni come la presenza di campi di mine,
sgombero per esigenze militari, fermo pesca prolungato, divieti di determinati
tipi di pesca ecc. Tutto quello che ruotava intorno al settore ittico entrò in
crisi e si fermò. Il Comando Supremo aveva dichiarato il litorale adriatico “
in stato di guerra” con le relative conseguenze.
Interessante
notare che disposizioni restrittive e
proibitive colpirono anche il settore della caccia alla vigilia della stagione
venatoria, soprattutto per il ferreo controllo che le autorità militari posero
sulle armi, sulle munizioni e sul loro impiego. Per far fronte anche alla
carenze di sostentamento, nel corso ella guerra ai cacciatori fu permesso di
cacciare con l’uso delle reti.
Il
clima di partecipazione, euforia e grande spirito patriottico che fu alla base
delle numerose iniziative che caratterizzarono la mobilitazione civile, via
via, si andò smorzando venendo ad affermarsi sempre più la realtà della guerra.
Già
nelle settimane di giugno iniziarono ad arrivate le notizie dei primi caduti al
Fronte, tra cui il tenente colonnello Alberto Spada, decorato di medaglia
d’Argento al Valor Militare, caduto il primo giorno, il 23 giugno 1915, della I battaglia dell’Isonzo, sul Gobna.
Accanto
alle notizie provenienti dal Fronte Pesaro dovette fronteggiare il 18 giugno un
attacco austriaco dal mare: un incrociatore e due torpediniere austriache, da
3.000 metri dalla costa, aprirono il fuoco, dopo aver superato il campo minato
frettolosamente posto, e presero di mira
la linea ferroviaria, la stazione e le
attrezzature portuali, ma i danni furono limitate, anche se la paura fu
grande, anche se non ci fu l’effetto sorpresa come quelli del primo giorno di
guerra. Il Comune, ancora sull’onda del fervore patriottico, intitolò una
strada parallela al mare in costruzione
“Viale Trento”, dando per assicurata la vittoria finale della guerra che
si stava combattendo.[8]
Nel luglio successivo, anche Fano fu attaccata dal mare, anche qui con
obiettivo la stazione ferroviaria; i danni furono pochi, anche se la Chiesa di
san Francesco fu colpita in quanto si trovava sulla linea di tiro.
Nella
provincia di Pesaro i mesi che passarono riportarono tutti alla realtà. Svanito
il sogno o l’illusione che la guerra sarebbe stata guerra, mentre il Municipio
si affannava a perfezionare misure per prevenire attacchi dal mane, con sempre
nuove disposizioni e la difesa costiera iniziava a prendere corpo, la guerra
reale si rilevò per quello che era: una realtà comune alle altre provincie
marchigiane. Una guerra che era molto diversa da quella immaginata delle accese
discussioni dei caffè e dei circoli, invocata nelle manifestazioni come
soluzione a tutti i problemi, urlata nei comizi, con tutte le aggettivazioni
iperboliche dettate dalla esaltazione sia del singolo che della collettività. I
primi sei mesi di guerra anche a Pesaro e provincia ebbero questa parabola:
dalla illusione alla tragica realtà.
[1] Vi erano: “L’Idea”, giornale cattolico,
“Il progresso”, periodico socialista, “La Sveglia Democratica”, di orientamento
repubblicano con venature massoniche; a Fano si stampava “La Concordia”, di
orientamento cattolico. Da ricordare che il giornale delle Marche, a livello
regionale, era “L’Ordine – Il Corriere delle Marche”, che si stampava in
Ancona.
[2] “La
Sveglia democratica”, 15 maggio 1915. Citato in Ugoccioni P.R., Il Pesarese, in Piccinini G. (a cura di), Le
Marche e la Grande Guerra. 1915-1918, Ancona, Assemblea Legislativa delle
Marche, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano. Comitato Provinciale
di Ancona, 2008.
[3] Molto probabilmente qualcuno a Pesaro
aveva scorto a cavallo della mezzanotte tra il 23 ed il 24 maggio 1915 il
dirigibile italiano “Città di Ferrara” che da Jesi si era levato in volo verso
Pola, in missione di guerra, ma non lo aveva riconosciuto come italiano.
[5] Ugoccioni P.R., Il Pesarese, in Piccinini G. (a cura di), Le Marche e la Grande Guerra. 1915-1918, Ancona,
Assemblea Legislativa delle Marche, Istituto per la Storia del Risorgimento
Italiano. Comitato Provinciale di Ancona, 2008. Pag. 119
[7] Ugoccioni P.R., Vita di Odoardo Giansanti detto “Pasqualon”, Pesaro, Nobili, 1991.
Cfr. inoltre: Balducci S., ( a cura di), Orlando
Giansanti. Poesie, Pesaro, Nobili & Pieraccini Ed., 1966
[8] Un anno dopo, il 31 luglio 1916, a
venti giorni dalla impiccagione nel fossato del Castello del Buon Consiglio,
una strada più a monte, fu intitolata a
Cesare Battisti.
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