a Giandomenico Papa, alle sue vie del Monte
Proviamo a percorrere, in questa stagione, come fosse la prima volta, la Via del Cònero che, salendo Pietralacroce, prosegue verso il Poggio. Cerchiamo, nei mutevoli climi di questa quasi estiva primavera, di osservare il paesaggio che si apre ad ogni curva, nei piccoli miracoli dei fianchi della strada, tra campagna, colline, ville, case, vigne, frutteti, filari di lavanda non ancora viola e lilla e il giallo delle prime ginestre nella nuova luce. Paesaggio e passaggio per un cammino tagliato nella roccia bianca e guadagnato negli anni, quasi ci fosse un’intenzione della natura a non consentire altro che un inoltrarsi misurato nell’universo del Cònero - pendici, monte e dintorni - con discrezione e timore, col riguardo dovuto ai doni assoluti e al privilegio di disporne senza appropriarsene. Il Parco è un modo di salvaguardare e tramandare la storia e le sue essenze, il mistero che abita ogni luogo di questo verde che possiede, unico, un carattere della luce difficile da definire e nominare. Il grado di purezza diamantina lo rende inconfondibile là dove la roccia bianca concentra e restituisce i riflessi delle diverse divinità dell’iride, la loro chiarità e profondità. Nulla resta immune: piante, erbe, fiori, minerali, uccelli, insetti, animali del bosco. Tutto contiene la rete invisibile che li esalta e li nutre, fossero anche i notturni rapaci del buio. I regni di questo paradiso chiedono quel tanto di civiltà che li preservi e li conservi affinché si possa seguitare a goder di loro. “Poco più in su non c’era altro che pietra vischiosa sfavillante nel sole, sotto i passi ginestre gialle e cardi rossi e, lanciato verso il cielo, l’immenso spigolo dritto e aspro dell’altipiano. Chi saliva ad occhi chiusi e poi li apriva di colpo, vedeva improvvisamente il mare immobile, come un ventaglio che s’è aperto con un rumore di tuono.” E’ un brano da “Il viaggio in paradiso” (scritto probabilmente nel 1925), frammento posto in appendice al romanzo di Robert Musil L’uomo senza qualità nell’edizione italiana di Einaudi, in cui si nomina Ancona e forse è descritta la baia di Portonovo. Ogni sosta chiama la pazienza dello sguardo, la disponibilità a dimenticarsi di sé per essere in quella parte di mondo, in quell’aria, nell’odore di terra e corteccia, nell’umido del mattino, nei profumi, nei suoni, nelle voci. Il tralcio di vite, il cespuglio di rovi e di more, il manto dell’erba, il mare che si scopre senza avviso, le nubi alte, gli alberi, la gazza che vola tagliando la strada, il fagiano, gli indaffarati merli, i colombacci, la tristezza del canto della tortora: non c’è cosa in quest’universo della costa adriatica che non meriti un ascolto senza condizioni proprio perché si offre nel cuore d’una naturalezza gratuita. I sentieri che dal Poggio partono per brevi viaggi mai uguali, densi e ricchi d’imprevedibili meraviglie, sono il minimo esempio di come si possa perfino supporre una vacanza in casa, la scoperta di un’isola di terraferma quasi sempre ignota, ramo di pace perduta che i paesi del Cònero propongono, schivi e niente affatto clamorosi. Come ogni autentica aristocrazia, posseggono una non esibita nobiltà che li salva dall’incurabile male di un turismo spietato e li affida, per quel che è ancora possibile, alla pazienza del raro viaggiatore che non ha premura.
Francesco Scarabicchi
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